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La rimozione della dimensione infuturante della prassi

Pubblichiamo l'intervento di Roberto Ciccarelli all'incontro "La vita s'infutura" del 13 settembre, in dialogo con Francesco Scaringi.

Ciccarelli e Scaringi (foto Salvatore Laurenzana)

Scritto da

Roberto Ciccarelli

Pubblicato il

29 settembre 2024

Si partecipa a un’idea come a un’azione. Un’idea e un’azione non sono la stessa cosa. Cosi come la partecipazione ad entrambe. Ma la partecipazione a un’idea permette di intendere moltissime cose, così avviene per l’azione permette di praticarne altrettante.

Infuturarsi è un verbo che Dante ha creato nel 17esimo canto de Il paradiso a partire dall’aggettivo futuro.

Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
poscia che s’infutura la tua vita
vie più là che ’l punir di lor perfidie
 
Non voglio però che porti odio ai tuoi concittadini,
poiché la tua vita si prolungherà ben oltre
quelle di chi è stato malvagio con te

Il verbo infuturarsi indica una condizione politica. In Dante è quella dell’esiliato da Firenze. L’esiliato non dovrebbe considerare la propria condizione non nell’ottica del risentimento per il passato, o per le inimicizie prodotte sia dai nemici che dai compagni di fazioni che sono stati allontanati da Firenze. L’esiliato si infutura sia con le sue opere, sia con la sua morale.
Il proiettarsi nel futuro [s’infutura, l’infuturarsi] si basa per Dante sulla virtù morale della previdenza, cioè sulla capacità di presagire le necessità future, il prendere tempestivamente le misure adatte ad affrontarle, la capacità di ordinare le azioni future proporzionando i mezzi al fine.
Vi è in Dante una traslitterazione importante della previdenza nella provvidenza. La prudenza è una virtù morale ed è l’espressione di una conoscenza: l’ordine mondano è inscritto in quello divino. “L'eterna pia provvidenza del Re, che perpetua con la sua bontà le cose celesti, non abbandona con disprezzo i nostri inferni” (Dante, Settima Epistola, 2).
La previdenza è intesa diversamente ne Il Principe di Niccolò Machiavelli, un altro fiorentino che ha pensato la dimensione infuturante della prassi. Previdente non è solo colui che sta sulla difensiva in attesa che si manifesti il Male del mondo. Per Machiavelli la previdenza è una virtù materialistica e immanente, cioè una virtù politica che - con la razionalità, l’astuzia e il coraggio - è necessaria per affrontare la Fortuna. La previdenza non è il caso, l’arbitrio, il capriccio, la provvidenza di Dio. La Fortuna è la realtà stessa, composta dalle occasioni in cui l’uomo è immerso; è lo spirito del tempo, il suo divenire.

L’infuturarsi ha avuto un richiamo nella poesia italiana del Novecento. Pier Paolo Pasolini, ad esempio, ha parlato dei diseredati ne Le ceneri di Gramsci. L’infuturarsi è il movimento del passato nel futuro. Pasolini ha inteso dire che il passato fascista è stato congelato in un presente immoto nell’Italia degli anni Cinquanta, sotto la forma di un culto capitalista in cui l'imborghesimento ha fatto causa comune con il neofascismo.
L’infuturarsi è la condizione di chi non trova un posto nella gerarchia o nella storia. In un certo senso è a questa situazione che ha alluso ironicamente anche Eugenio Montale in Gerarchie, una poesia contenuta in Satura dove ha preso in giro i gerghi strutturalistici e dialettici diffusi negli anni Sessanta:

La polis è più importante delle sue parti.
La parte è più importante d'ogni sua parte.
Il predicato lo è più del predicante
e l'arrestato lo è meno dell'arrestante.

Il tempo s'infutura nel totale,
il totale è il cascame del totalizzante,
l'avvento è l'improbabile nell'avvenibile,
il pulsante una pulce nel pulsabile.

Il poeta si aggira tra parole in macerie e come un’anguilla sfugge al controllo del linguaggio e dalle sue pretese auto-fondanti. Da Montale colgo un’idea interessante. L’infuturarsi è il modo in cui si sta in un divenire che si espone verso l’oltre, il fuori, l’incognito, il futuro. Questo movimento non è racchiudibile in una totalità, è una prassi che si rivolge oltre se stessa anche se può subire un contraccolpo e può essere rispedita indietro.

In termini politici generali propongo una definizione.

  1.  L’infuturarsi è l’azione previdente, astuta, coraggiosa, razionale di una vita che diviene in un futuro che si fa concreto nel suo farsi.
  2. La politica, in quanto infuturante, non è una politica di professione cioè una politica che calcola le probabilità secondo una logica di costi e benefici. La intendo come una disposizione etica che s’infutura perché è una prassi attivante, collettiva, storica, concreta che si apre al possibile e lo attualizza, di volta in volta. Il filosofo francese Gilles Deleuze ha definito questo tipo di disposizione come un divenire rivoluzionario.
  3. Nella politica che s’infutura la dimensione dei mezzi è sganciata da quella meramente strumentale alla quale è regolarmente ridotta nelle società capitalistiche ed è associata alla scelta dei mezzi comuni più efficaci per liberare l’accesso al futuro.

L’infuturarsi, inteso come un'idea della prassi e non solo come un’idea speculativa, non coincide con i modi di intendere l’apocalisse teologico-politica - cioè come utopia o redenzione. Ed è l’opposto dell’apocalisse capitalista intesa come adattamento e cinismo, indifferentismo e morfinismo, atteggiamenti prevalenti oggi nelle società neoliberali in cui viviamo.
L’infuturarsi di una vita politica è il contrario di una vita passiva che non aspetta un evento salvifico e distruttore, né la catastrofe di ogni possibilità, di ogni fortuna, di ogni divenire diverso dalla morte e dall’estinzione di sé e degli altri.
L’infuturarsi non è l’eterno, ma è una prospettiva che diviene. Non è solo un’azione di un soggetto, ma anche di un oggetto, di una corrente di vento, di una luce particolare, di un ora e qui, di un divenire, di una facoltà. Un libro è infuturato dalla legatrice che lo ha restaurato, un sentimento si infutura perché uno scultore gli ha dato una forma in una statua, l’ora di un giorno si infutura come le Cinque della sera di Garcia Lorca.

In Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista (DeriveApprodi, 2022) ho scritto che s’infutura anche la forza lavoro di cui noi tutti disponiamo in quanto facoltà generale della creazione di tutti i valori del mondo

La forza lavoro si infutura a partire dall’ora e dall’adesso in ogni atto materiale e intellettuale, nella produzione e nella riproduzione delle merci e delle relazioni, degli usi e delle loro contraddizioni.

Ho l’impressione che oggi esista un desiderio enorme di futuro anche se si tratta di un desiderio impotente.
Nella logica culturale che governa i nostri discorsi la dimensione infuturante della prassi è stata rimossa, resa inefficace, circondata dal discredito e da un’immensa sfiducia.
In una cultura in cui tutto esorta a muoversi, a performare, a fare da sé la prassi non conosce futuro, ma solo una ripetizione esausta. Il paradosso induce alla rinuncia pur di evitare il fallimento vissuto come l’horror vacui.
Non pretendo di risolvere problemi storici a colpi di teoria. Non attribuiscono alcun valore all’idealismo come al volontarismo. Però posso proporre un problema: come si trasforma il paradosso dell’azione ridotta a performance in un dissidio sul futuro nella prassi?
Una risposta possibile è quella di Giulio Maccacaro: grande medico, filosofo, politico, di cui oggi ricorre il centenario dalla nascita. Per Maccacaro c’è una risposta alla politica basata sulla performance che patologizza i fenomeni sociali e riduce i bisogni e i desideri a problemi psichici. Per Maccacaro, se una malattia esiste, essa è il prodotto dell’assenza della partecipazione. Si partecipa a un’idea come a un’azione. Un’idea e un’azione non sono la stessa cosa. Cosi come la partecipazione ad entrambe. Ma la partecipazione a un’idea permette di intendere moltissime cose, così avviene per l’azione permette di praticarne altrettante. La partecipazione è la forma collettiva che può assumere un dissidio sul futuro. Una vita si libera quando inizia a praticare tale dissidio e s’infutura.


ciccarelli scaringi2 salvatore laurenzana

Paradossi apocalittici

L'introduzione all'incontro
di Francesco Scaringi

Il titolo dato all’edizione di quest’anno del festival, come si può comprendere, è un gioco di segni grafici e di parole. Una zeppa, per usare un linguaggio enigmistico. Nel discorso, in alcuni passaggi, sarò molto schematico per dare rilievo all’ospite (Roberto Ciccarelli) e alla discussione. Ho tracciato degli appunti che contengono più interrogativi che risposte; alcune di queste sono rinviate al nostro interlocutore.
Da qualche anno cerchiamo di collocare il nostro festival entro una dimensione culturale che sia molto legata al tempo che viviamo.
Questo non vuol dire che giochiamo ipocritamente su un’attualità spicciola o modaiola. Ci interessa raccogliere sollecitazioni e esigenze profonde per darne un’interpretazione in un contesto di esperienza culturale che è molto legato al fare ed essere nella polis.
Quest’anno il nostro interesse cade su un problema, proprio espresso dal termine "futuro". È anche questo il tentativo di rilevare alcune questioni, che sono in definitiva le domande che accompagnano la nostra ricerca nell’ambito delle arti performative, intese nelle loro specificità espressive, come esercizio del pensiero e come espressioni della cultura del corpo, che ci permettono di avere strumenti per relazionarci e per interpretare il mondo che ci circonda tramite un’esperienza comune.
Quando ho immaginato che il “futuro” potesse essere il concept del festival, subito si è manifestato un pensiero paradossale e problematico. Con due facce, che è stato tradotto graficamente in "In/Futuro". Infatti, i due termini “In” e “Futuro” sono sbarrati. La sbarra crea una distanza che dà vita a una tensione dialettica.
La locuzione “in futuro” trova uno sbarramento entro il suo stesso pronunciamento.
Ci sembra che il termine “futuro”, che ha sempre caratterizzato la traiettoria dell'agire umano, oggi sia fuori luogo. O, da un altro punto di vista, esso sia interdetto (non si può parlare più di futuro in termini di liberazione). Il futuro è reso inesistente (non si possono tracciare nuovi orizzonti futuribili) oppure, come nell’immaginario letterario e cinematografico, si manifesta nella valenza della distopia, negando ogni forma di utopia.
Siamo sottoposti a un'ingiunzione che attesta che non si può essere fuori dal presente così come esso si compie, cioè nella sua determinatezza sia in termini di civiltà, sia politici che economici. Per usare una terminologia filosofica, si potrebbe dire che l’essere si manifesta nella sua naturale staticità, contrapposto a un divenire che è negato nella sua apertura alla possibilità. O, se si volesse prendere in considerazione la storia, si dovrebbe affermare, come è stato fatto con perentorietà, che la storia è finita.  Allora ci poniamo alcune domande con l’intento di destabilizzare ciò che sembra, seppur con tante preoccupazioni, ovvio e ineluttabile.
La domanda che apre al dubbio è questa: ma è proprio così o siamo alla presenza di una distorsione che bisogna affrontare con “sospetto” (qui c’è il riferimento a una postura filosofica che ha una connotazione evidente). A partire da ciò cerchiamo di chiarire quale sia il senso di quel paradosso di cui accennavo, contenuto nel segno grafico del titolo del festival, guardando al futuro dalla prospettiva delle narrazioni apocalittiche.
Viviamo, come si sottolinea in continuazione, sollecitati dai continui smottamenti esistenziali, politici ed ecologici.
Impauriti dalla vicinanza della guerra, angosciati da epidemie e dal disastro ecologico, impauriti dalla trasformazione dell’ordine economico e politico mondiale.
Su questo sfondo si manifestano molte fenomenologie apocalittiche che provo semplicemente ad elencare in termini generali:

  • Si proclama una grande decadenza, una civiltà che ormai ha perso la purezza della sua origine per mescolamenti razziali e religiosi.
  • Dal punto di vista etico sembra che ormai la perdita di valori comuni abbia raggiunto la sua fase finale.
  • La geopolitica ci parla di forze “imperiali” e oscure che minacciano l’ordine mondiale.
  • Si è giunti ormai, politicamente, a un decisivo scontro tra dittatura e democrazia.
  • L’umanità sembra aver perduto la sua essenza a causa del consumismo e della tecnologia.
  • Alcune forme di ecologismo, quelle più estreme, “augurano” la scomparsa dell’uomo, i cui danni in epoca di Antropocene lo rendono a rischio di estinzione rispetto a una natura che trova nuovi equilibri ecologici.

Sono tensioni che attraversano il nostro tempo e che certamente portano con sé problematiche di rilievo, che però sembrano declinare sul piano dell’angoscia sia individuale che collettiva. La psicologia e la psicologia sociale sembrano farla da padrone, mentre la dimensione politica, al contrario, sembra non avere più presa.
Cosa lega dunque una visione statica della realtà, come si accennava precedentemente, ad alcune visioni apocalittiche che si confrontano con la dimensione futuribile? Penso che possano venire in aiuto su questo alcune riflessioni di Ernesto De Martino. Ritengo De Martino uno dei grandi “pensatori” e antropologi del Novecento, come una lettura più attenta del profilo intellettuale e della sua ricerca sta dimostrando. Un lavoro condotto in particolare da parte di Marcello Massenzio con la ripubblicazione dei testi fondamentali di De Martino, che oltre a valorizzare la sua ricerca etnografica, con le grandi novità introdotte, lo pone al centro del dibattito filosofico e culturale europeo del suo tempo e in un rapporto dialettico molto profondo con Lévi-Strauss.
Proprio De Martino, verso la fine della sua esistenza - morto precocemente all'età di 57 anni nel 1965 - aveva raccolto molto materiale sulle visioni apocalittiche e sulla fine del mondo. La prima raccolta e sistemazione fu effettuata da Clara Gallino con il titolo “La fine del mondo. Contributi all'analisi delle apocalissi culturali” (Einaudi 1977), oggi nella nuova edizione curata proprio da Daniel Fabre - Ernesto De Martino - Giordana Charuty - Marcello Massenzio (Einaudi 2021).

De Martino ha cercato, possiamo dire con una certa retorica filosofica, quale fosse la tonalità politico-esistenziale dell’epoca. Era un’epoca di grandi trasformazioni. Basti pensare al panico e ai problemi scientifici ed etici suscitati dalla bomba atomica dopo Hiroshima e Nagasaki. Cresceva e si acuiva la contrapposizione ideologica e militare tra il blocco sovietico e quello atlantico, frutto della Seconda guerra mondiale. La società dei consumi cresceva, mettendo in luce i relativi fenomeni di alienazione. Mentre i processi di rivoluzione e decolonizzazione dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo rivendicavano un nuovo protagonismo. Nuovi soggetti si affacciavano nella storia, mentre gli operai in Italia, a causa delle migrazioni interne e del boom economico in fase di crescita, rivendicavano maggiori diritti e poteri decisionali. Si prendeva coscienza di un mondo contadino che fino a quel momento era stato relegato fuori dalla storia, nel mondo magico e del mito - dall’antropologia di stampo positivista visto come la parte primitiva dell’umanità e invece nella visione dell’idealismo (soprattutto crociano) come “infanzia dello spirito”.
De Martino ha un’attenzione su questi fenomeni a 360 gradi. E guardando a quello che succedeva nel mondo coglieva irrequietezze che si manifestavano in forme apocalittiche, millenaristiche.
È interessante, dal nostro punto di vista, l’attenzione che lui pone verso l’Occidente, nel quale scorge (attraverso una certa letteratura decadente e una filosofia esistenzialista) un aspetto nichilistico, di cui è estremamente preoccupato. Da qui, rispetto al risalto degli elementi della crisi della presenza, dà rilievo a quello che possiamo considerare l’altro polo del processo di crisi, che lui qualifica come “etica del trascendimento” (dimensione dell’antropogenesi), elemento fondamentale dell’essere umano che permette il riscatto e il superamento della crisi nell’elaborazione di un mondo culturale possibile. A fronte del rischio della fine, contrappone la capacità umana di generare nuove possibilità esistenziali entro la dimensione comunitaria degli individui, il dover essere che si contrappone alla staticità dell’essere naturale.

In sintesi (estrema) e schematizzando il suo pensiero molto complesso, De Martino, in riferimento alle apocalissi, distingue due tipologie: quelle che si esplicano nella dimensione dell’eschaton, cioè con una visione in cui il riscatto e la salvezza sono possibili; e quelle senza eschaton, prive della possibilità di riscatto.
L’apocalisse proietta in un futuro-presentificato la fine del mondo. De Martino, nel suo ragionamento (e nelle distinzioni operate), “associa” l’aspetto più nichilistico (la fine del mondo - oltre questo mondo non ce n’è un altro) all’apocalisse senza eschaton. Mentre all’apocalisse con eschaton riferisce l’idea della fine di “un” mondo culturale (e dunque con il prevalere di una possibilità di salvezza e rifondazione del mondo, in cui opera l’etica del trascendimento).
Ritengo che tali strumenti analitici possano aiutarci a tratteggiare la situazione attuale che si vuole evidenziare. Si può dire, tenendo presente l’ottica demartiniana, che le narrazioni che oggi vengono fatte (narrazioni che rispecchiano anche il sentire delle persone; basti pensare ad alcuni atteggiamenti nichilistici e populistici), prevalentemente riguardano la fine del mondo tout court, con la profonda angoscia che questo comporta.
Il paradosso, posto all’inizio, trova qui una sua ricomposizione. Il futuro resta precluso e pensabile se non in una dimensione apocalittica. Ciò comporta che il presente resta immodificabile, a rischio della fine del mondo. Resta fuori gioco la possibilità di un riscatto o di trasformare il mondo.
E questo cosa comporta? Pongo solo alcune domande che possono essere utili per la discussione.
Ritornando a una certa filosofia del sospetto, ci possiamo chiedere se non siamo forse, come nella caverna di Platone, nutriti di ombre, costretti a una realtà che risulta ineluttabile e impossibile da trasformare? Tutto questo ha solo un valore di carattere psicologico, manifestazione di paure e angosce individuali e collettive, o invece ha una valenza politica?
Questo lavoro di grande interesse lo trovo nella ricerca teorico-pratica di Roberto Ciccarelli, in particolare nel suo testo “Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista (Humanities 2022), ricco di spunti e riflessioni per trovare possibilità di sovvertire la “caverna”.


foto © Salvatore Laurenzana