Il grande vuoto indaga l’ultimo pezzo di strada che una famiglia percorre prima di svanire nel vuoto, affidando alla tragedia forse più cupa del teatro shakespeariano Re Lear, il compito di trasformare il dolore attraverso il gioco teatrale. Questo lento dissolversi è amplificato dal progressivo annientamento delle funzioni cerebrali della madre, una ex attrice, colpita da una malattia neurodegenerativa alla quale rimane solo il ricordo del suo cavallo di battaglia, un monologo tratto da Re Lear. Allo svuotarsi del cervello della madre fa eco lo svuotarsi di esseri umani dalla casa mentre questa si popola di oggetti, di ricordi che aumentano pesano e riempiono tutte le stanze.
Il lavoro trova risonanze e spunti in “Una donna” di Annie Ernaux, nel romanzo “Fratelli” di Carmelo Samonà e in “I curacari” di Marco Annicchiarico ed è il tentativo di raccontare una grande storia d’amore: quella tra una madre, i suoi figli e un padre che muore.
Il grande vuoto contamina la narrazione teatrale con il video in presa diretta per raccontare che le fotocamere di video sorveglianza e le loro immagini con visione notturna, permettono a un figlio di continuare a vivere la propria vita ed entrare senza essere visto in quella del proprio genitore. Guardare la propria madre giocare al solitario, fissare la televisione spenta, parlare con persone che non esistono, non farsi il bidet, piangere, stare seduta e ferma sul bordo del letto, passare la notte a tirare fuori dai cassetti fotografie pezzi di carta e mutande sporche per poi rimetterli dentro.
Tante le domande che ci hanno spinti a sprofondare in questa materia artistica, ad addentrarci in questa ricerca su cosa rimane di noi e se resta qualcosa di quello che siamo stati mentre ci approssimiamo alla fine, ma una su tutte è forse la più incandescente bella e giusta per il lavoro ed è quella letta in un fumetto della autrice Giulia Scotti: “Il punto è trasformare il dolore in bellezza. Ci riusciremo ancora?”

Fabiana Iacozzilli, regista-autrice porta avanti un lavoro di ricerca improntato sulla drammaturgia scenica e sulle potenzialità espressive della figura del performer. Collabora dal 2013 con il Teatro Vascello e dal 2017 con Cranpi e Carrozzerie N.O.T. Dal 2011 è membro del Lincoln Center Directors Lab/ Metropolitan N.Y. Tra i suoi spettacoli: Aspettando Nil con il quale vince l’Undergroundzero Festival di New York; La trilogia dell’attesa vincitrice del Play Festival (Atir e Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa); La classe che vince il bando di residenze interregionali Cura 2018, debutta a Romaueropa Festival 2018 e vince il Premio In-Box 2019, il Premio della Critica Anct 2019 e ottiene quattro nomination Ubu 2019 (miglior progetto sonoro vinto da H. Westkemper); Una cosa enorme che debutta alla Biennale Teatro 2020 e replica a REF2021.
Nel 2023 debutta con En Abyme alla Biennale di Venezia e con Il grande vuoto a REF 2023, spettacolo che chiude il trittico La trilogia del vento. Si occupa inoltre di pedagogia teatrale e di progetti che usano il teatro come strumento di interazione culturale: nel 2021 è regista di Abitare il ritorno progetto di teatro comunitario ideato da Asinitas e inserito in Incroci (progetto di interscambio tra realtà che usano il teatro come strumento di interazione culturale) e nel progetto di scambio internazionale di pratiche teatrali Literacy Act; Nel 2023 cura insieme a Cranpi e in collaborazione con Villa Pia-Italian Hospital Group di Guidonia Montecelio il progetto Piccole donne – da L. M. Alcott – un laboratorio di teatro integrato con giovani donne che soffrono di disturbi alimentari.












