Il caso ricorre, non dico come un motivo conduttore, ma come un motivo importante nel rileggere oggi la tua vita nel ricordarla. Sembra quasi che tu ci creda, che tu vi annetta una certa importanza. Cos’è il caso per te? Il caso può darsi che sia qualcosa che è scritto, ma che non si sa. Potrebbe essere qualcosa come quello che mi è capitato cinque giorni fa: ero nello studio di Friburgo per i miei esperimenti e i miei studi, quando entrò Gidon Kremer che era venuto a cercarmi. A dire il vero io lo avevo cercato tempo fa, me senza trovarlo e a lui era capitata esattamente la stessa cosa: in quel momento però era entrato nello studio dove stavo lavorando. Non ci eravamo mai incontrati in precedenza e d’un tratto abbiamo trascorso cinque ore insieme parlando. È stato un incontro di millenni, perché le parole, i silenzi, il gesto di un mano, gli sguardi esprimevano un’eloquenza infittita, quale potrebbe nascere da una consuetudine antichissima.
Così Luigi Nono ricorda, nell’autobiografia in forma di intervista con Enzo Restagno, il primo incontro con il violinista Gidon Kremer nel febbraio 1987. Si trattò di un incontro casuale, anche se da entrambi cercato. Era forse inevitabile che il compositore, sempre più caminante sin caminos, dopo la radicale svolta segnata dal quartetto d’archi Fragmente-Stille, an Diotima (Bonn 1980), sempre più incerto, più inquieto mentre con una grande curiosità procedeva nelle sue ricerche nei suoi esperimenti, incontrasse il violinista russo Gidon Kremer, un interprete atipico nel panorama dei grandi esecutori contemporanei, anch’egli in costante ricerca, insofferente nei confronti dei tradizionali programmi concertistici, e attratto dalla musica contemporanea. Da questo incontro sarebbe nato La lontananza nostalgica utopico futura. Madrigale per più caminantes con GIdon Kremer (Berlino 31 gennaio 1989) per violino solo, 8 nastri magnetici, da 8 a 10 leggii. Questo lavoro è legato all’ultima intensa stagione creativa di Nono, stagione che ha visto nascere il trittico legato all’ormai famosa iscrizione che il compositore lesse sul muro di un chiostro trecentesco a Toledo: “Caminantes no hay caminos hay que caminar” (Caminantes Ayacucho, per due cori, contralto, flauto, orchestra e live electronic; No hay caminos, hay que caminar… Andrej Tarkovskij, per sette gruppi strumentali; Hay que caminar sonando, per due violini), e che riassumeva il senso del suo ‘vagare’ creativo.
Sei leggii «lontani tra loro, irregolarmente e assimetricamente, mai vicini, in modo da rendere possibili vari cammini tra loro, mai diretti, cercandoli … ‘intrigati’ anche da 2 o 4 leggii vuoti, per rendere il cammino ancor più variato e fantasioso», sono disposti nella sala, con le 6 parti entro cui è articolata la composizione, il violinista cerca di disegnare così un percorso, incerto, titubante (cammina lentamente con improvvise fermate come e cercando il leggio successivo), sino alla lenta uscita dalla sala su un flautato sol che lentissimo si spegne nel silenzio. È un percorso non preordinato che l’autore, con la diretta collaborazione dell’interprete, intraprende, nel seguire il mutevole dispiegarsi dell’evento sonoro nel tempo dell’esecuzione e nello spazio della sala. In questo senso la presenza di Kremer è stata decisiva nella definizione di una scrittura violinistica estremamente raffinata, ricca:
a) di gesti esecutivi variegati e cangianti, «crini+legno sul ponte … al tallone … tasto …. Alla punta tasto crini + legno… tutto flautato»;
b) di piani dinamici che giungono alla soglia dell’impercettibilità, «tutto ppppppp cantando dolcissimo con voce quasi inaudibile ove possibile»;
c) di suoni con «altezza sempre mobile per microintervalli di 1/16 mai statici»;
d) di un’agogica altrettanto mutevole, da 30 a «180 velocissimo», «acceleransi e rallentandi sono da eseguire con fantasia».
Il richiamo di una dimensione autentica di ascolto musicale è estremamente problematico nella produzione dell’ultimo Nono, come ne La lontananza nostalgica utopica futura, ma perciò estremamente affascinante. L’evento musicale viene così ad essere elemento centripeto, attorno a cui si dispongono pariteticamente:
1) l’atto compositivo, talvolta molto articolato (si pensi al live electronic di Freiburg), che cerca di obliare se stesso,
2) l’intervento dell’interprete che si deve ascoltare, modificando un approccio all’esecuzione puramente tecnico-virtuosistico, e infine
3) la presenza di un pubblico – forse questo termine può risultare inadeguato – non più soggetto che controlla l’opera musicale attraverso una metaforizzazione linguistica, ma testimone attento del dispiegarsi dell’evento sonoro. In questa direzione l’aggettivo utopica sembra essere un più o meno consapevole richiamo alla Filosofia della musica di Bloch.
Anche qui è tematizzata una contrapposizione tra la dimensione visiva e quella acustica: l’Hellhören, l’udir chiaro, subentra all’Hellsehen, alla chiaroveggenza, ormai inadeguata, rispetto al difficile percorso della Selbstbegegnung, dell’incontro con il Sé. È al suono, in quanto primo di ogni carattere falsamente allegorico, in quanto allusivo senza ridursi a segno univocamente interpretabile, in quanto enigmatico senza nasconder nulla, è al suono e alla musica che vogliamo destinare il primato di una realtà altrimenti indicibile. L’ascolto a cui Nono e Kremer ci invitano è un ascolto-interpretazione continui tra gesti musicali (tritoni, seconde, settime, none maggiori e minori, microintervalli, armonici – l’inadeguatezza di una tale terminologia è evidente) mai univoci, mai traducibili che sembrano talora disporsi secondo una forma a ponte, attorno al terzo leggio, a sua volta così articolato, ma che poi fuggano una tale impressione frutto di una lettura più che di un ascolto. Il comporre che si ritrae per consentire all’accadimento sonoro il suo completo dispiegarsi, l’esecuzione, che si crea nell’oblio di un virtuosismo tecnico da cui non può prescindere, rappresentano un continuo trasmigrare tra ‘significanti’ che hanno perso ogni riferimento ad un ‘significato’ ultimo, e ci riconsegnano ad un ascolto che diventa un incessante domandare.
[Da: Paolo Pinamonti, Gidon Kremer per Luigi Nono, in: "Venezia arti", 1991, p. 131-133.]
Luigi Nono. Compositore tra i massimi rappresentanti dell’avanguardia europea del secondo dopoguerra, Luigi Nono nacque a Venezia il 29 gennaio 1924, primogenito di Mario, ingegnere, e di Maria Manetti. I primi, ricchi stimoli artistici e culturali provennero dalla stessa famiglia, attraverso i diversi interessi – pittura, scultura, musica – coltivati professionalmente o in maniera amatoriale dai parenti più stretti di Nono. Di fondamentale importanza per la sua prima formazione fu, in particolare, la ricca biblioteca del padre, fornita anche di incisioni di Beethoven, Mahler, Wagner: qui il compositore condusse autonomamente letture e ascolti che avrebbero esercitato un influsso durevole sul suo percorso artistico e intellettuale.
Frequentatore fin da ragazzo del Teatro La Fenice e del Festival di musica contemporanea della Biennale, Nono iniziò a studiare privatamente pianoforte verso i dodici anni, mentre nel contempo frequentava il Ginnasio-Liceo classico “Marco Polo” di Venezia. Decisivo per la sua formazione artistica fu l’incontro nel 1941 con Gian Francesco Malipiero, il quale – stando alle parole dello stesso Nono – gli «aprì tutti gli orizzonti della musica» facendogli scoprire da un lato il repertorio e la trattatistica del Rinascimento e del Barocco italiani, dall’altro le più recenti tendenze internazionali, esemplificate dalle opere di Arnold Schönberg, Anton Webern e Béla Bartók. Nono seguì come studente esterno i corsi di composizione di Malipiero presso il Conservatorio “Benedetto Marcello” di Venezia fino al ritiro di quest’ultimo dall’insegnamento, nel 1943, dopodiché continuò a frequentare da esterno la classe di contrappunto e fuga di Raffaele Cumar (ex allievo di Malipiero e di Luigi Dallapiccola), studiando privatamente pianoforte con Gino Gorini. Conseguita la maturità classica nel 1942, per volere del padre si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Padova, dove si laureò nel 1947 per poi abbandonare subito tale percorso professionale, decidendo di dedicarsi esclusivamente alla musica. Malgrado questa scelta, Nono non ritenne opportuno suggellare la propria formazione artistica con un titolo accademico, ma si limitò a sostenere gli esami di compimento inferiore e medio di composizione, superati rispettivamente nel 1947 e nel 1949 sempre presso il Conservatorio “Benedetto Marcello”, senza mai proseguire fino al diploma conclusivo. Oltre all’incontro con Malipiero, negli anni Quaranta ebbero luogo ulteriori esperienze di fondamentale importanza per la crescita artistica di Nono e per i futuri sviluppi della sua produzione, a partire dall’amicizia stretta nel 1942 con il giovane pittore Emilio Vedova, con il quale avrebbe successivamente collaborato in diversi progetti di grande rilievo. Nel 1946, grazie a Malipiero, Nono ebbe invece modo di conoscere Bruno Maderna, compositore e direttore d’orchestra veneziano di poco più vecchio di lui ma già noto nell’ambiente musicale; nello stesso periodo entrò in contatto anche con Dallapiccola, il quale allora costituiva un basilare punto di riferimento per i giovani della sua generazione. Fu soprattutto l’incontro con Maderna, tuttavia, a segnare una svolta radicale nella biografia personale e artistica del nostro: trovando in lui non solo un amico, ma anche un vero e proprio maestro d’arte e di vita, Nono si affidò alla sua guida per ricominciare lo studio della composizione. Entrambi, sempre su indicazione di Malipiero, si iscrissero poi a un corso internazionale di direzione d’orchestra che Hermann Scherchen tenne nel 1948 a Venezia: tra i tre iniziò così un durevole sodalizio che esercitò un influsso determinante sul profilo umano e intellettuale dei due giovani compositori. Gli anni Cinquanta si svolsero interamente all’insegna degli Internationale Ferienkurse für Neue Musik di Darmstadt, ai quali Nono si iscrisse la prima volta nel 1950 in seguito alle segnalazioni di Scherchen e Maderna. La sua partecipazione ai Ferienkurse continuò assidua per l’intero decennio, dapprima come allievo, poi, dal 1957, in veste di docente, fino alla rottura definitiva maturata tra il 1959 e il 1960. L’esperienza fu di primaria importanza per l’evoluzione artistica, politica e umana del compositore: in questo contesto avvenne innanzitutto il debutto di Nono sulla scena internazionale, seguito negli anni successivi dalle prime esecuzioni dei suoi nuovi lavori. Qui egli poté inoltre ampliare e approfondire le proprie conoscenze sia nell’ambito delle tecniche compositive, dedicando una particolare attenzione alle opere di Schönberg e di Edgard Varèse, sia nel panorama dei giovani autori d’avanguardia europei ed extraeuropei (Karlheinz Stockhausen, Pierre Boulez, Henri Pousseur, John Cage), con i quali instaurò fecondi rapporti personali anche quando segnati da un acceso dissenso estetico e/o politico. Nono iniziò a marcare la propria divergenza rispetto alla cosiddetta «Scuola di Darmstadt» nel 1959 per poi distaccarsene in maniera definitiva nel 1960, non condividendo le due principali tendenze che vi si erano affermate, ossia da un lato l’iperdeterminismo della serialità integrale, dall’altro il ricorso pervasivo all’alea e all’indeterminizione. Convinto sostenitore della necessità dell’arte di prendere posizione nei confronti del presente politico e culturale, Nono infatti criticava entrambi gli atteggiamenti compositivi come l’espressione di un’irresponsabile volontà di fuggire dalla storia. Con il 1960, anno a cui risale la sua prima composizione elettronica (Omaggio a Emilio Vedova), inizia la collaborazione tra Nono e lo Studio di Fonologia Musicale della Rai di Milano, fondato nel 1954 da Maderna e Luciano Berio: a tale laboratorio egli rimarrà legato per quasi vent’anni, producendo lì fino al 1979 tutti i suoi lavori per o con nastro magnetico. In questi due decenni assunsero un rilievo primario, nella produzione di Nono, tematiche di impegno e denuncia sociale dove la dimensione collettiva era preminente rispetto a quella individuale, in un indissolubile intreccio tra arte e attualità. Nella concezione del compositore, maturata tra l’altro attraverso letture sartriane, l’artista e l’intellettuale dovevano nutrire l’imperativo morale di partecipare in prima persona ai processi di trasformazione sociale, utilizzando a tal fine i mezzi specifici della propria attività, nel suo caso la musica e il teatro musicale. Per le opere di questo periodo Nono attinse quindi preferibilmente a testi che proponessero casi esemplari di lotta, forza, speranza e sacrificio per la collettività, cercando sempre più spesso, soprattutto nel corso degli anni Settanta, di portare i propri lavori al di fuori dei luoghi istituzionali della musica “colta” per coinvolgere un pubblico socialmente più differenziato. Da segnalare, in questi anni, l’incontro con Claudio Abbado (1965) e Maurizio Pollini(1966), con i quali Nono instaurò un profondo rapporto umano e professionale. Dopo la pietra miliare segnata dall’azione teatrale Al gran sole carico d’amore (1975), iniziò per il compositore una fase di profonda crisi creativa, durante la quale – stando alle sue stesse parole – non riusciva più a trovare i mezzi adatti per esprimersi. Sentì così la necessità di ripensare non solo il proprio linguaggio musicale, ma anche le sue stesse categorie mentali, un lavoro di profonda riflessione che trovò un fertile terreno di confronto nell’amicizia con il filosofo Massimo Cacciari. Lasciato lo Studio di Fonologia di Milano, dotato di tecnologie ormai poco aggiornate, a partire dal 1980 Nono perfezionò la ricerca sui Live Electronicsa Friburgo, in Germania, presso lo Experimentalstudio della Fondazione Heinrich Strobel. Obiettivo di tali sperimentazioni era l’ampliamento delle possibilità tanto della produzione del suono da parte di voci e strumenti, quanto delle tipologie di ascolto nel pubblico dal vivo, valorizzando l’interazione tra esecutori, tecnologia e la dimensione spaziale del luogo di rappresentazione. Pur senza rinunciare all’impegno civile e politico, l’ultima produzione di Nono si focalizza soprattutto sulla dimensione interiore dell’indicibile, espressa attraverso il ruolo sempre più importante conferito al silenzio e la ricerca di sonorità ai limiti dell’udibile. Insignito nel marzo 1990 del Großer Kunstpreis di Berlino, importante onorificenza conferita annualmente dalla Akademie der Künste a personalità di spicco in campo artistico, Nono morì a Venezia l’8 maggio dello stesso anno.
Francesco D'Orazio. Premio Abbiati 2010 come Miglior Solista dell’anno, Francesco D’Orazio è nato a Bari, si è laureato in Lettere e diplomato in violino e viola. Ha studiato al Mozarteum di Salisburgo e presso l'Accademia Rubin di Tel Aviv. Il suo vasto repertorio spazia dalla musica antica eseguita con strumenti originali (dal 1996 è il violinista dell’Ensemble l’Astrée) alla musica classica, romantica e contemporanea. Numerosi compositori hanno scritto per lui: Ivan Fedele, Terry Riley, Michele dall'Ongaro, Michael Nyman, Fabio Vacchi, Luis De Pablo, Gilberto Bosco, Marco Betta. Ha tenuto concerti in tutta Europa, Nord e Sud America, Messico, Australia, Nuova Zelanda, Cina e Giappone esibendosi al Festival di Salisburgo, alla Royal Albert Hall, alla Philarmonie di Berlino, al Teatro alla Scala, al Teatro Colon di Buenos Aires e al Festival di Tanglewood. Ha effettuato registrazioni discografiche per Bis, Kairos, Decca, Hyperion, Stradivarius, Amadeus. Ha suonato con la London Symphony, l'Orchestra dell'Accademia di Santa Cecilia, l’Orchestra Filarmonica della Scala, la BBC Symphony Orchestra, i Berliner Symphoniker, la Shangai Philarmonic, la RAI di Torino, la Filarmonica di Nagoya, l'orchestra del Teatro La Fenice di Venezia diretto, tra gli altri, da Lorin Maazel, Hubert Soudant, Sakari Oramo, Pascal Rophé, Ingo Metzmacher, Luciano Berio. Suona un violino di Giuseppe Guarneri “Comte de Cabriac" del 1711.
Francesco Abbrescia. Ha studiato pianoforte, canto e direzione di coro ed è diplomato in “Composizione” e “Musica Elettronica” al Conservatorio “N. Piccinni” di Bari. Ha eseguito l’elettronica dal vivo e la regia del suono di diversi brani in eventi prestigiosi come Accademia Chigiana e Biennale di Venezia, ed è stato assistente all’elettronica interattiva e multimediale per i corsi estivi di composizione di musica da film di Luis Bacalov. Collabora con compositori di fama internazionale, tra i quali Ivan Fedele, Michele Dall’Ongaro, Gianvincenzo Cresta, Pasquale Corrado, Vito Palumbo, e si esibisce come esecutore agli strumenti elettronici e alla regia del suono in Italia e all’estero con i musicisti Francesco D'Orazio, Raffaella Ronchi, Michele Marco Rossi, Nicola Fiorino, Giampaolo Nuti e Filippo Lattanzi, Arturo Tallini. Si occupa principalmente di modellazione al computer di processi compositivi e composizione musicale, sia elettroacustica che strumentale, motivato da un forte interesse per la ricerca che lo porta alla realizzazione di proprie tecniche di scrittura algoritmica con la pubblicazione di articoli specifici sul tema. Suoi lavori sono stati eseguiti in numerose manifestazioni in tutto il mondo: ARS ELECTRONICA (Linz, Austria), ICMC (Lubiana, Slovenia), FILE (São Paulo, Brasile), ÉuCuE (Montréal, Canada), FIMU (Belfort, Francia). Ha vinto il Premio Nazionale delle Arti 2008/09 – Sezione Musica Elettronica con il brano Audio-Video di propria composizione “Studio sull’intonazione della carne”. È docente di ruolo di “Esecuzione ed Interpretazione della Musica Elettroacustica” al Conservatorio “N. Piccinni” di Bari.