In Seekin Unicorns, Chiara Bersani incarna l’interrogatività implacabile di ciò che è altro sempre, scena o non scena.
Anche il corpo accade
Scritto da
Donato Faruolo
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Attinge a un’intuizione di bellezza che coglie alla sprovvista canoni e teorie armoniche. Noi siamo intorno a lei, lei si muove in mezzo a noi. Pur in quella nebbia dell’altrui umore, la luce è però chiara, per niente drammatizzata. Non ci sono palchi, boccascena, ribalte, cortine di velluto.
«Ora è il 2024, è ottobre e Potenza ha ancora nell’aria gli ultimi respiri d'estate. Vi immagino ora, uno a uno, dal momento in cui avete deciso di rispondere al mio invito. Vi immagino mentre organizzate questo pomeriggio, mentre vi domandate se sia meglio mangiare prima o dopo l’appuntamento. Vi immagino davanti all’armadio impegnati a scegliere il vestito migliore. Vi immagino mentre camminate verso di me attraversando questa sera d’estate. Vi sto aspettando da così tanto tempo...».
Chiara Bersani, a Potenza per un nuovo “allestimento” di Seeking Unicorns nell’ambito di Città delle 100 scale festival, accoglie i suoi invitati alla Galleria civica con un messaggio stampato su un foglio di carta distribuito a ciascuno dei convenuti. In quel messaggio evoca una festa di Stephen Hawking del 2009 a cui non si presentò nessuno, nonostante l’ansia di una preparazione meticolosa perché tutto fosse perfetto, perché l’eventualità potesse finalmente esplodere attingendo alla radice di ciò che significa tessere un rituale di assimilazione, di reciproco legamento, di ponderata soggezione, com'è nei ranghi di ogni festa che si rispetti. Un complesso che è alla base di ogni legatura sociale, fatta di esercizio di ineluttabili forze e di subdole influenze, da cui quel giorno Hawking dovette probabilmente constatare di essere “libero”, proprio malgrado. Quel giorno Hawking dovette probabilmente anche constatare di essere irrimediabilmente altro, nonostante il fatto che, guardandosi intorno, non dovesse scorgere alcuna anomalia, e dovesse quindi naturalmente assumere di essere parte omogenea di quel tutto fuori da sé.
Il messaggio di Chiara Bersani è in grado di far cominciare lo spettacolo ben prima di giungere allo spazio scenico: siamo tutti lì, sotto la luce della volta celeste, eppure già condotti dentro una storia, in un’aspettativa, nella nebbia di un umore altrui con cui, d’ora in poi, proveremo a scendere a patti. A volte ritraendoci, in disperata difesa del nostro diritto alla calma dell’ordinario e del disinteresse. A volte sfidando noi stessi nella pantomima della “normalità”, a reagire come in stato di quiete, pronti a spergiurare che agiremo come è opportuno, com’è conforme. E lì dove saremo turbati, ricacceremo il turbamento nell’innocuo della scena, in ciò che potremo tollerare in sicura attesa della catarsi del sipario.
Invece Chiara Bersani ha tutta l’intenzione di incarnare l’interrogatività implacabile di ciò che è altro sempre, scena o non scena, ma lo fa appellandosi alla forma dell’unicorno: un’entità che è presente in ognuno dei nostri immaginari, pur non avendo una forma data, pur non essendo una fattualità compiuta. Ecco che l’unicorno diviene il ricettacolo del potenziale, una sorta di infrastruttura verso l’impenetrabilità dell’altro per insinuare l’immaginabilità di mille forme, emotività, relazionalità possibili.
Chiara è sola sulla scena, col volto riverso in terra, e poco più in là giace una tromba. Da un indefinito altrove, arrivano i rumori di una festa a cui nessuno di noi è invitato, che potremo solo immaginare, immaginando al contempo di esserne esclusi. La performer si inoltra sulla scena facendosi spazio in un senso di solitudine e singolarità. Ma talvolta lancerà al pubblico la sfida di un contatto emotivo, facendoci piombare nella dimensione della coesistenza che avevamo sospeso in attesa dello spettacolo: la penetrazione di uno sguardo, quasi l’invito a un gesto di risposta, l’allusione impercettibile a una richiesta non formulata. Gemiti, sorrisi, ammiccamenti, vagheggiamenti, tutto si accenna, si abbozza, in una vita che sobbolle appena dietro una drammaturgia sospesa.
In Seeking Unicorns anche il corpo accade: non è la macchina prestazionale da impiegare al servizio di ogni testo, ma è l’agente che materializza la scena intorno al proprio essere. Non compie gesti volti alla produzione di effetti, non “rappresenta” fatti ed eventi lontani: «con il cuore in gola, vi aspetto di là», attraverso quel foglio di carta ci annunciava piuttosto che l’unico altrove sarebbe stato la scena stessa. Si palesa lì, si irradia in nostra presenza, appellandosi alla più radicale delle energie, che è quella dell’esserci in quanto tale. Impossibile disgiungere la drammaturgia dal corpo e dal trascorso di quel corpo: è Chiara Bersani a determinare, col noto approccio del corpo politico, una modalità del manifestarsi, un impudico diritto a non farsi costringere in uno schema della relazionalità e dell’emotività che si muove per consuetudini, per assopimenti, per necessarie violenze reciproche.
Attinge a un’intuizione di bellezza che coglie alla sprovvista canoni e teorie armoniche. Noi siamo intorno a lei, lei si muove in mezzo a noi. Pur in quella nebbia dell’altrui umore, la luce è però chiara, per niente drammatizzata. Non ci sono palchi, boccascena, ribalte, cortine di velluto. Chiara arriva alla tromba e, incerta, soffia in quello strumento che è archetipo delle sentinelle, degli allarmi, degli strilloni. Da una stanza imprecisata, altrove, rispondono tre fiati, traducendo quella richiesta in un suono armonico, in musica.
foto © Salvatore Laurenzana