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Il corpo dell'Africa tra sofferenze e speranze

Quartiers libres ha in sé qualcosa di perturbante che difficilmente ti abbandona, tanto è implicato il corpo dell’artista.

Nadia Beugré (foto Salvatore Laurenzana)

Scritto da

Francesco Scaringi

Pubblicato il

05 novembre 2022

I vari linguaggi espressivi non raggiungono mai una forma definita, ma sono continuamente interrotti e sporcati, privati in tal modo di un eccesso di estetizzazione.

La performance di Nadia Beugré proposta al Città delle 100 scale festival compie dieci anni esatti dalla prima esecuzione. La coreografa e performer ivoriana ha dichiarato che non la eseguirà più per le conseguenze negative che la plastica, usata in scena, ha sul suo fisico. A un certo lei si riempie la bocca e mastica un lungo pezzo di plastica, a simboleggiare la prepotenza del dominio delle industrie occidentali produttrici di rifiuti con cui inquinano l’Africa per liberarsi delle scorie e dei residui pericolosi. E, nello stesso tempo, rappresenta la donna africana vittima del dominio maschile e sociale che ne impedisce la presa di parola.
Tutta la performonce mette a dura prova il suo corpo. La sofferenza prodotta dalla ballerina sul proprio fisico evoca le performance di body art degli anni settanta, soprattutto quelle di un fronte femminile che ha dato rilievo a temi riguardanti i rapporti interpersonali. In chiave di evocazione, non certo di imitazione, vengono in mente i nomi di Gina Pane, che oltre alla compresenza di amore e morte ha marcato le sue performance sul senso della sofferenza personale e collettiva, e il lavoro di Rebecca Horn con l'utilizzo di particolari protesi quali bende, tessuti, legacci.
Nadia Beugré sviluppa la sua esibizione con il dichiarato intento di mostrare il dolore e la rabbia che l’Africa e le donne manifestano. Un dolore vissuto in prima persona, ma anche una manifestazione collettiva come inizio di una presa di coscienza solidale. Infatti il pubblico immerso nella performance è chiamato a compartecipare, a liberarla dai lacci e dalle bottiglie di plastica con cui lei crea situazioni al limite della sopportazione fisica.

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Quartiers libres procede in modo non lineare, soggetto alle reazioni del momento della performer e alla relazione con il pubblico. Risulta interessante come i vari linguaggi espressivi non raggiungano mai una forma definita, ma sono continuamente interrotti e sporcati, privati in tal modo di un eccesso di estetizzazione. Del resto si capisce che c’è uno schema coreografico e drammaturgico che, però, non è mai portato a compimento per l’irruenza dalla carica vitalistica, o mortifera, che si manifesta nel corso dell'esibizione e nel rapporto con il pubblico.
La performance è segnata da un’ambiguità di fondo che riguarda tutta l’arte post-coloniale quando ibrida forme artistiche “occidentali” e la cultura di provenienza. Una ambiguità irrisolta che apre a più esiti che possono convivere. Infatti possono nascere configurazioni in cui l’ibrido da vita a nuove e più complesse forme espressive ricche di significato, o diventa sintomo di non assimilazione di grammatiche che restano comunque estranee. Non sempre risulta chiaro tutto questo e se tale ambiguità sia un punto di forza o di debolezza.
Resta il fatto che la performance riesce, con un alto grado d’empatia, a coinvolgere gli spettatori e a cogliere nel segno.
Il festival continua a offrire un’ampia panoramica delle arti perforativi nelle varie parti del mondo soggetti a tensioni e profondi cambiamenti.


foto © Salvatore Laurenzana