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Quell'urlo che annulla e precede ogni possibile dire sensato

Tutto brucia, ovvero Le troiane di Euripide riscritto dai Motus: l'archetipo di tutte le guerre, Troia, come paradigma dell'inimicizia tra uomo e natura.

Motus, Tutto brucia al Città 100 scale festival (Salvatore Laurenzana)

Scritto da

Francesco Scaringi

Pubblicato il

28 settembre 2022

Se questo conflitto viene riportato nella polis cosa diventa “questa guerra”? Quale possibilità di ricomposizione essa permette? Quale reale logos si può rintracciare nell’esplicazione della forza e del dominio, che contempla in sé l’annullamento del nemico con la morte e la schiavitù?

Polemos – diceva Eraclito – è padre di tutte le cose. Intimo movimento retto dalla legge degli opposti che permette a tutti gli esseri di esistere nel divenire. La realtà è dunque segnata dall’inevitabile conflitto che si manifesta nella necessaria relazione con l’altro secondo il logos che sottende al tutto. Ma se questo conflitto viene riportato nella polis cosa diventa “questa guerra”? Quale possibilità di ricomposizione essa permette? Quale reale logos si può rintracciare nell’esplicazione della forza e del dominio, che contempla in sé l’annullamento del nemico con la morte e la schiavitù? E alla hybris c’è un limite, o la tracotanza che contiene non ha argini? Sono interrogativi che non solo assillavano i greci ma continuano ad assillare anche noi.
La tragedia, Le troiane di Euripide, è lo stravolgimento del punto di vista della necessità della guerra. Se cambia la prospettiva e si guarda dalla parte dei vinti o di chi la subisce, da chi non è considerato degno di esistenza; si apre una grande faglia rispetto all’umanità che proclama la sua dominazione sugli umani e non umani. Ed è proprio l’archetipo di tutte le guerra (Troia) che può essere il racconto o dell’eroica conquista o della ineluttabile catastrofe che gli umani possono portare a sé e al mondo.

La tragedia di Euripide è statica priva di movimenti, senza sviluppo, in cui il tempo è sospeso. I Motus, una delle compagnie teatrali più significative del panorama italiano ed europea, con lo spettacolo Tutto brucia si misurano, proprio a partire da questa staticità, con l’abisso del dolore e della fragilità attraverso uno spettacolo dai contorni perturbanti, tellurici, prossimo all’informe. Parafrasando Nietzsche: il dionisiaco riaffiora dalle viscere della natura in forme ibride ed incompiute tra l’umano e il ferino in lande desolate di cenere e fuoco.
“Tutto brucia” dice Ecuba, ed è questo il leitmotiv di tutto lo spettacolo, che trova nella dimensione musicale l’originario canto che l’antica tragedia ci ha consegnato. Un canto, però, squarciato e distorto dall’urlo che annulla e precede ogni possibile dire sensato. L’urlo è l’inarticolato, quel prima, quell’essere corpo che in un gesto originario cerca alleanza di altri corpi per scorgere un orizzonte comune e tessere un discorso.
Come dichiarato dagli autori Daniela Nicolò e Enrico Casagrande nell’incontro dopo lo spettacolo, Tutto brucia è stato pensato durante i momenti più drammatici della pandemia, in quell’atmosfera di profonda incertezza in cui la vicinanza della morte e nello stesso tempo l’impossibilità del lutto hanno segnato l’esistenza di ognuno di noi e nello stesso tempo dimostrato l’attuale inimicizia tra uomo e natura, per essersi eretti a dominatori del mondo. E, nello stesso tempo, il distanziamento sociale come perdita della relazione con l’altro.
Tutto questo dà allo spettacolo un atmosfera cupa e mortifera, che mette alla prova la capacità empatica dello spettatore.
Le troiane di Euripide sono evocate attraverso frammenti dal canto. Mentre sulla scena si avvicendano per quadri figure ibride di mostri marini e di corpi in continua mutazione.
Le due performer in scena, Silvia Calderoni e Stefania Tansini, con grande maestria e partecipazione disarticolano la compostezza corporea in dissimetriche contorsioni, per lo spasmo dolorante per la perdita di affetti, punti di riferimenti, di comunità. È dal basso che l’informe cerca di ergersi tra barlumi di luce che disegnano figure o segni, tracce antiche ma anche possibili profezie inascoltate. Se pure per tutto il tempo lo spettacolo è immerso in un atmosfera cupa, di ineluttabile annientamento e dolore esso apre, però, spiragli di futuro, di resistenza se, come nella scena finale, proprio i corpi, come quelli Ecuba e Andromaca, sapranno allearsi e stabilire una vicinanza.


motus tuttobrucia14 slaurenzana

I Motus hanno messo su uno spettacolo complesso, segnato da una certa urgenza che forse non ha portato a meglio definire passaggi, che a volte restano sospesi. Così come, l’aspetto canoro e musicale risulta, forse, un po’ ridondante nonostante la bellezza della musica e della voce, è la capacità di scivolare dagli accenti più apollinei agli anfratti più caotici e dionisiaci della musicista cantante che sta direttamente in scena ad interagire con le protagoniste (musiche e testi R.Y.F. di Francesca Morello).
Attenzione, stiamo parlando dei Motus, con la loro capacità non solo di disegnare figure al limite dell’allucinazione, di dominare gli spazi, di sperimentare configurazioni inedite, di mescolare generi e forme espressive. Sono anche lì con la loro “filosofia della contaminazione" e di superamento dei generi alla ricerca di una libertà “compositiva”, che è elaborazione però di un tessuto di relazioni tra autori, protagonisti e pubblico. Lo sfondo politico del loro agire.
Per ritornare al "dentro allo spettacolo", e per trovarne anche un esito, ho in mente due figure, non certamente estranee al tessuto ideale dello spettacolo. La prima è dell’antropologo Ernesto De Martino, che ha affrontato in uno studio straordinario la dimensione del cordoglio in un grande testo quale Morte e pianto rituale (Einaudi). De Martino mostra in particolare come di fronte alla “crisi della presenza” – così definiva quella condizione di instabilità e incertezza esistenziale quando si affaccia il nulla – la dimensione caotica, se non la follia come può essere la morte di un caro, stabilisce un regime di precarietà e il dolore rischia di compromettere l’integrità dei sopravvissuti. L’elaborazione del lutto, che non è cancellazione della crisi del cordoglio ma sua accoglienza, passa attraverso una dimensione collettiva, perché la presenza possa trovare una sua reintegrazione. L’altra figura è Hannah Arendt, che si pone dal punto di vista della fragilità, dell’insicurezza per contrastare la tracotanza della hybris, che nel disconoscimento dell’altro, con l’esclusione da ogni rapporto di natura giuridica, sociale e politico, giustifica e invita all’assassinio.
La dimensione del lutto (del dolore e della fragilità) e quella della politica s’incontrano per definire nuovi spazi di convivenza non solo tra gli abitatori della polis, ma tra gli umani e non umani.


foto © Salvatore Laurenzana