Il capannone della Metaltecno, a Tito Scalo, è diventato l'altare su cui sacrificare e glorificare la vita artistica di Olivier Dubois.
Corpo narrante
Scritto da
Francesco Scaringi
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Il suo essere sulla scena e sotto i riflettori: come i faraoni che si confessano con sincerità agli dei portando un cuore pesante non più di una piuma, per poter raggiungere il regno glorioso dell’aldilà come prescrive la psicostasia nell’antico libro egizio dei morti.
Il Città delle 100 scale festival, nella 13esima edizione, è tornato all’ex fabbrica di profilati di alluminio “Metaltecno” di Tito Scalo, a pochi chilometri da Potenza. Il capannone conserva il suo fascino di archeologia industriale che si addice allo spirito “ab/norme” del festival.
Due serate, per tre performance diverse tra loro. La danza e l’ironia di Oliver Dubois; gli hula hoop del CollettivO CineticO & Alessandro Sciarroni; la musica onirico elettronica dei Loveiscoil.
Il primo appuntamento, il 22 settembre, ha accolto la performance di Olivier Dubois. Il capannone della Metaltecno è diventato un altare su cui sacrificare e glorificare la sua vita artistica. Causalità e combinazione dei vari momenti spettacolari, realizzati con la complicità degli spettatori, hanno caratterizzato la performance, sviluppata sul doppio binario dell’intrattenimento affabulatorio, del divertimento e della prova, nel vero senso della parola e del danseur che “crea” e realizza nell’alea del momento la sua coreografia.
Ogni volta tre spettatori sceglievano a caso le coreografie, estraendole tra le 60 buste contenenti le performance. Lo stesso valeva per le musiche ma senza garantire che la musica tirata a sorte fosse quella originaria della performance associata. Ogni volta, poi, un altro spettatore decideva di quale capo d’abbigliamento Dubois dovesse privarsi, per mettere a nudo una parte del corpo a mo’ di strip poker.
Così il performer si è sottoposto, da mattatore, al rischio di sé nello sforzo, nella fatica e nella resa. Nello stesso tempo si è fatto esempio, con tratti anche narcisistici, dell’essere performer e danseur. È il corpo di Dubois che – dentro la sua carne, le ossa, le membra, le articolazioni, le movenze, i gesti – ha memoria delle configurazioni coreografiche. Esse possono ormai, come un’inconscia macchina, produrre, o meglio figurare o rappresentare ogni cosa o quasi ammettendo che pur dei limiti esistono, come lo stesso Dubois ha sottolineato con le interruzioni, la stanchezza palesata e dichiarata o la voglia di cambiare moduli e generi per sperimentare, così come ha fatto nel suo viaggio artistico.
Le varie performance erano alternate da momenti di confessione in cui con sincerità ha raccontato di sé come uomo e artista, della sua idea di danza del suo essere sulla scena e sotto i riflettori. Come i faraoni che si confessano con sincerità agli dei (pubblico) portando un cuore pesante non più di una piuma, per poter raggiungere il regno glorioso dell’aldilà come prescrive la psicostasia nell’antico libro egizio dei morti.
Non è un’autocelebrazione. L’artista, se pur solo sul tappeto, non si è mai isolato. Gli spettatori sono coinvolti nella sua storia privata e professionale, nella bellezza e nella gioia, se pur sofferta, della danza. Stabilisce con essi un colloquio intimo e sincero, confessando le gioie e le brutture, le sofferenze e le esaltazione della sua carriera senza però appesantire l’atmosfera, con il sorriso di una lieve comicità tra autoironia, piccole intemperanze e grandi slanci di affetto, trasportando il pubblico in una alleanza sempre più intensa fino all’esplodere della danza collettiva finale dal sapore dionisiaco.
foto © Salvatore Laurenzana