«A che serve tutto questo? A che serve il teatro? Serve a me». Eugenio Barba al Città delle 100 scale festival.
«Ho fondato l’Odin Teatret per nascondere la mia identità etnica»
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Alice Possidente
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«Spesso non so dove finisce la finzione e dove inizia la mia vita»
«A che serve tutto questo? A che serve il teatro? Serve a me». Lo ha ripetuto diverse volte, Eugenio Barba, durante l’incontro La mente collettiva di "Una giornata qualunque...”, il 16 settembre al Teatro Stabile di Potenza all’interno della rassegna del Città delle 100 scale festival. Un incontro-approfondimento, moderato da Francesco Scaringi, condirettore del festival, che ha svelato alcuni aspetti e modi di essere e di operare dell’Odin Teatret, fondato a Oslo da Barba nel 1954. Presenti all’incontro anche Lorenzo Gleijeses (attore, perfomer e allievo di Barba, che ieri sera si è esibito nello spettacolo Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa), Mirto Baliani (tecnico audio e suono dello spettacolo) e Julia Varley, attrice icona dell’Odin Teatret dal 1976.
«Ho fondato l’Odin Teatret per nascondere la mia identità etnica» ha rivelato Barba, che emigrò in Norvegia nel 1954 e per i primi tempi lavorò come saldatore. «Sono arrivato a Oslo senza sapere la lingua. Ho imparato a decifrare il comportamento degli altri attraverso l’intonazione della voce e soprattutto il linguaggio fisico». Da qui, nel 1964, nasce un teatro che in pochi anni avrebbe contribuito a rivoluzionare i canoni teatrali e diventare uno dei più importanti del mondo. «Da giovane ero molto scuro di carnagione, ho cercato di nascondere il disprezzo e il razzismo trasformandomi in artista. Gli altri avrebbero visto in me un artista e non più un operaio straniero».
Un teatro come rifugio, «formato da persone più o meno nelle mie condizioni», ha sottolineato Barba. «Ho cominciato a fare teatro perché mi serviva mettermi una maschera e riunire altre persone intorno a me. E molto presto ho capito che quello che facevo avevo un’influenza sugli altri».
Julia Varley è arrivata all’Odin Teatret nel 1976. «Sono della generazione che ha vissuto il ‘68 in Italia. La parola ‘rivolta’ era molto importante» ha detto. «Quando ho conosciuto l’Odin Teatret quella parola era piena di idee e visioni ma molto poco capace di fare azioni. Avevo desideri per il futuro ma non sapevo come fare».
L’Odin Teatret, per Varley , è servito a questo. «Con esercizi estremamente semplici, come impostare il tono di voce o la postura, la parola ‘rivoluzione’ ha assunto tutto un altro significato».
Il lavoro e gli esercizi sono tantissimi. Lo spettacolo Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa è stato provato per ben 4 anni prima del debutto. Un continuo fare e disfare, un intreccio di idee e di scene stravolte, spesso rimandate al punto di partenza. «Dopo aver visto una delle tante prove, Eugenio ci disse che non gli piacevano i cambiamenti e ci chiese di ritornare al punto di partenza» hanno ricordato Mirto Baliani e Lorenzo Gleijeses. «Quando però riprendemmo il vecchio file audio, lo trovammo danneggiato e Mirto dovette creare di nuovo tutto da capo. Si è rimesso al lavoro per ritornare al punto di partenza» ha aggiunto Gleijeses.
Una continua ricerca, quindi. «L'impazienza di cercare il risultato impedisce che il risultato venga», ha detto Varley. «Questo nostro modo di lavorare funziona solo quando gli attori riescono a incorporare mentalmente lo spettacolo che comincia a vivere un'altra vita». Ed è quello che è accaduto con lo spettacolo ispirato da Le Metamorfosi di Kafka. «Gregorio – il protagonista dello spettacolo, ndr – è nato prima della mia prima figlia, che ora va in prima elementare», ha detto Lorenzo Gleijeses. “Lo sento come un figlio. Spesso non so dove finisce la finzione e dove inizia la mia vita”.