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La città e il vuoto

Costellazione di parole e concetti che propone alcune idee spigolate su varie fonti, o riprese da discussioni e seminari realizzati da Basilicata 1799, attorno al titolo dell’XI edizione del festival: vuoto/pieno.

Potenza, città e vuoto (foto Salvatore Laurenzana)

Scritto da

Francesco Scaringi

Pubblicato il

22 maggio 2020

È possibile pensare all’idea di uno spazio/vuoto che non ha sostanza in sé, né può essere assolutizzato. Uno spazio/vuoto comune che è apertura, in cui le forme della rappresentazione si costituiscono in una continua creazione e rigenerazione di forme.

L’idea di questo esercizio di senso è testare la possibilità di pensare il “vuoto” ossimoricamente come spazio/vuoto generativo e rigenerativo di forme senza alcuna pretesa di persistenza sostanziale. L’intento è di tenere insieme la città e la rappresentazione, l’artificio e la natura, le relazioni e le decisioni, il dono e l’economico, esplorando la possibilità di avere a che fare con un’idea di vuoto che non si esaurisca in quella del “nulla”.

Horror vacui
Una delle retoriche più affermate in ambito architettonico e urbanistico è quella della rigenerazione urbana, che segnala quanto possano essere ambigue alcune formule se non contenute entro parametri ben controllati. Per molti versi la retorica della rigenerazione urbana corre il rischio di mascherare nuove forme di speculazione in una sindrome generalizzata dell’horror vacui, dell’urgenza cioè di riempire ogni anfratto. A costoro bisognerebbe contrapporre, come suggeriva Gillo Dorfles qualche tempo fa, l’horror pleni1 come esercizio di ripulsa, di rifiuto, di orrore appunto della situazione di cui sopra.
Si potrebbe prendere ispirazione dalla scuola filosofica Zen, in cui il vuoto non è inteso come negazione del pieno, ma come «entità di per sé esistente». Del vuoto, infatti, è possibile avere un’esperienza positiva attraverso le forme d’arte orientali che, invece di “rappresentare” un oggetto, “presentano” il vuoto tra le cose, ciò che le individua e distingue. Il vuoto, dunque, come apertura alle possibilità.
Bisognerebbe aderire con maggiore attenzione a un punto di vista che privilegia la visuale del vuoto contro l’horror vacui di tanti “rigeneratori” allo sbaraglio. Chissà, forse le città respirerebbero un po’ senza che tanti incorrano nel rischio di diventare dei giustificatori consci e inconsci delle incapacità politiche e amministrative, o vittime inconsapevoli delle nuove forme della “speculazione urbana”, o di contribuire alla gentrificazione, quel nuovo fenomeno che sta cambiando il volto di tante città creando nuove forme di emarginazione di parte della popolazione economicamente e culturalmente più fragile. Città insomma che si strutturano intorno a nuovi ceti benestanti con esigenze di benessere, creatività e consumo, tradizionale o alternativo, mentre i problemi sociali vengono sempre di più marginalizzati in zone invisibili, come fenomeni di ordine pubblico da reprimere.

Polis
In Mito e pensiero presso i greci2, Jean-Pierre Vernant rappresenta la caratteristica della polis greca sulla base del significato simbolico e pratico che assumono alcuni luoghi che fondamentalmente rappresentano la demarcazione tra il privato e il pubblico. Il riferimento è a Oikos (alla casa) e a Agorà, la piazza, luogo in cui gli uomini uguali, cioè i cittadini, s’incontrano.
Nel distinguere il “privato” dal “pubblico” Vernant fa riferimento a due divinità care ai greci, Hestia ed Hermes: uno rappresenta il focolare domestico che, piantato nel centro della casa, ne costituisce il punto d’unione con gli antenati e gli dei della casa a marcarne un’origine (un clan); l’altro, Hermes, è il dio discolo della soglia, dello scherzo, della presa in giro, ma è anche il dio della mobilità, dell’incontro, dello scambio, dei traffici e del commercio.
Questa contrapposizione si risolve nell’agorà in cui le due caratteristiche mitiche assumono funzioni diverse. Infatti al centro dell’agora è presente un’ara comune, e il centro assume una dimensione più “astratta” in quanto luogo geometrico in cui tutti gli uguali, cioè coloro investiti dello statuto di cittadini, possono prendere la parola. Infatti all’inizio l’agorà è uno spazio libero senza nessun edificio, dentro cui, gli “atomi” (per richiamarci alla tradizione atomistica) possono muoversi liberamente. Un vuoto a disposizione privo d’impedimento per i cittadini che s’incontrano non solo per lo scambio economico ma si interrelazionano per partecipare e decidere politicamente. Mentre, presso gli antichi greci, il termine chora indicava il circondario agricolo intorno alla polis, spazio fuori dalla polis ma non a essa estraneo, una sua contrada.
Più tardi Platone in La Repubblica cerca, dalla sua ottica, di porre rimedio alla crisi della polis (democratica). Ripensa la polis secondo un’ideale topologia che la caratterizza, mettendo in contrapposizione l’agorà e l’acropoli, sede della religione. Nell’acropoli viene riposizionata la politica. Una contrapposizione tra alto e basso dove la politica diventa attività per pochi (i filosofi). Il “vuoto geometrico”, caratteristico dell’agorà, assume per Platone un significato negativo, come luogo privilegiato dell’inganno dei sofistici demagoghi.

Chôra
La controrisposta a questo discorso di Platone, come suggerisce Derrida3, può essere trovata nello stesso Platone più anziano, in un’opera del periodo maturo in cui il filosofo cerca di revisionare alcune sue idee fondamentali e spiegare l’origine del cosmo. L’opera in questione è il Timeo, in cui Platone introduce la figura del Demiurgo, l’artefice del cosmo che, grazie alla sua caratteristica di mediatore, può da una parte guardare alle idee eterne come modelli, dall’altro sulla scorta di esse dare forma gli elementi originari.
Giovanni Reale ricorda4:

il Demiurgo fa sì che il principio materiale partecipi dell'intelligibile in un processo che Platone definisce ineffabile e meraviglioso (Timeo). Si tratta di una mescolamento del materiale con le immagini delle Idee (non con le Idee!). queste immagini sono ottenute grazie alla mediazione degli enti matematici.
La realtà sensibile nasce e muore in qualche luogo questo luogo è un altro genere di realtà, si tratta di uno spazio (greco: chora), che è sempre e non si corrompe, che fornisce una sede a tutte le cose soggette a generazione. Esso si coglie con un ragionamento "spurio", è oggetto di persuasione, a mala pena credibile, e questo perché si tratta di un principio indeterminato, coglibile solo ‘con un ragionamento bastardo’ (Timeo).
Perciò le cose che occupano spazio sono solo quelle che si generano, non quelle intelligibili, ne consegue che il misto (Filebo) che si realizza nel sensibile è costituito dall'immagine dell'idea più un substrato che è la spazialità, sede di ciò che nasce (Timeo).
Platone definisce il principio materiale anche come ricettacolo di tutto ciò che si genera, una realtà amorfa (=senza forma, se avesse una forma non potrebbe più essere improntata) che è sempre la medesima, ma che riceve continuamente forme (le immagini delle Idee) che lo plasmano (Timeo).
Questo principio materiale viene anche visto come una realtà di forze che si agita e muove continuamente, senza ordine né equilibrio (Timeo).

È interessante soffermarsi ancora sul concetto di Chôra seguendo Derrida, che sottolinea come esso non viene del tutto colto dalla tradizione aristotelica, che ci si riferisce principalmente con il significato di materia funzionale alla distinzione di potenza e atto che giustifica l’essere della cosa nel divenire.
Derrida esplora il concetto di Chôra in Platone per saggiarne tutte le possibili definizioni e sottolineare come, secondo il filosofo greco, essa stessa è indefinibile o non riportabile entro i termini consueti.

Chôra segna i limiti della nominazione situandosi piuttosto come innominabile del discorso. Non si lascia comprendere in una logica dell’esclusione, del né né, e nemmeno in una dell’inclusione, dell’et et. Il discorso su chōra – attesta Deridda, discenderebbe quindi da un logos bastardo, corrotto, ed infatti il luogo che Platone indica per la sua annunciazione è il sogno (52b).

In Platone il termine Chôra mantiene dunque un significato ampio, indefinito e sfumato quasi a volerne amplificare le potenzialità, rimarcandone l’indeterminatezza. Un’indeterminazione come potenza alla determinazione, un qualcosa d’informe con la possibilità di prendere forma, di essere informato. Una determinazione caratterizzata più da “non” che dall’affermazione, che apre ulteriormente alla potenzialità del prendere forma. Essa, tra le varie caratterizzazioni date da Platone, viene detta “madre-ricettacolo” per sottolineare la capacità di accoglimento:

Perciò la madre è il ricettacolo di ciò che si genera ed è visibile e integralmente sensibile, non diciamola né terra né acqua né fuoco né aria, né altre delle cose che nascono da queste o dalle quali queste nascono. Ma, dicendola una specie invisibile e amorfa, capace di accogliere tutto, e che partecipa in modo assai complesso dell’intelligibile e che è difficile da concepirsi, non ci inganneremo. (Tim., 51a-b)

Derrida dice che essa, pur non potendo ricevere per sé nessuna proprietà, tuttavia può “lasciarsi prestare” le proprietà di ciò che riceve. Chôra riceve, dunque, ogni determinazione sensibile o razionale che sia, ma solo provvisoriamente, per consentire una mise en abyme, utile a considerare l’originario come elemento da cui si parte sempre di nuovo, valido in ogni tempo ed in ogni luogo5.

La Chora – dice Timeo – “è sempre” (52A8) . Il fatto di “essere sempre” è ciò che apparenta la chora ai modelli che la “fecondano” 31 ;a differenza di questi, però, come abbiamo visto, essa non ha alcuna forma. Ed è proprio perché non ha alcuna forma che essa può “acco-gliere tutte le forme”, può offrire “un luogo ( e{dra ) a tutte le cose che devono generarsi” (52B1). Essa stessa è per così dire questo “luogo” 32 ,un “luogo” però, invisibile. Senza essere una forma, la chora è il luogo di ogni forma. Senza essere visibile, è il luogo di ogni visibilità. La sua natura – dice Timeo – può essere colta soltanto “attraverso un ragionamento bastardo” “che non deriva dalla sensazione” (52B2), un ragionamento “a stento credibile”, “al quale – dice Timeo – guardiamo come sognando” (52B3).

Dietro questa descrizione si potrebbe intravvedere una metafora di carattere teatrale. Qualcosa come un “luogo”, in cui avviene questo avvicendarsi di immagini e di figure, che sono propriamente rappresentazioni. Tale luogo è invisibile perché qualunque sua visibilità disturberebbe la scenografia, ogni volta diversa, della rappresentazione. La Chôra non è dunque la skené intesa come luogo materiale, posto lì tra la cavea e l’orchestra, a ospitare la rappresentazione. La Chôra in cui avviene quella rappresentazione del mondo – che è anche la sua generazione – è piuttosto la scena intesa come luogo immaginario, come luogo invisibile, che ospita non questa o quella rappresentazione ma ogni possibile rappresentazione.

Questo luogo, questa ‘atmosfera’, che ‘accoglie’ le rappresentazioni, che le fa essere per un certo tempo, sospeso tra l’inizio e la fine dello spettacolo, è la chora. Essa è invisibile, esiste solo come luogo della visibilità, esiste solo per accogliere le figure che entrano ed escono da essa. Timeo ha già detto che la chora non può avere alcuna caratteristica determinata, perché, se l’avesse, essa inquinerebbe, per così dire, la rappresentazione6.

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Termini

Per superare il rischio di equivocare e sostanzializzare l’idea di vuoto dobbiamo far interagire il termine con altre significazioni attraverso sfumature sinonimiche che ci aiutano ad ampliarne il significato. Il termine vacuo7 si accosta maggiormente al significato di qualcosa che non è occupato da nessuna materia. Infatti vacuo significa essere vacante, privo di qualsiasi determinazione o identità. Il vacante non può essere mai considerato in se stesso ma il suo senso risulta in riferimento a ciò di cui è privo.
D’altro canto il termine evacuare ha a che fare con “liberare” un certo posto da qualcosa, far posto, far spazio, sgomberare e ancora “privare” qualcosa della sua legalità. Nel suo significato più antico si avvicina al senso di condurre uno spazio alla sua condizione originaria e nello stesso tempo di essere disponibile all’uso da parte della comunità. Uno spazio vacante è sottratto a ogni forma sostanziale, a ogni determinazione di luogo, a ogni identità precostituita e istituzionalizzata, materialmente pieno o vuoto che sia.
Nella sua allocuzione grammaticale il verbo “evacuare” sia in forma attiva sia transitiva riporta al significato di “rendere vuoto”, “rendere disponibile”.
Oggi il termine evacuare ha assunto soprattutto un significato diverso e opposto a quanto evidenziato nell’origine del termine, cioè predilige il significato di “ripristino” cioè da restituire alla proprietà (privata o all’ordine pubblico).

Sintesi provvisoria
La precaria analisi di questi termini ci induce a una provvisoria conclusione sintetizzabile in alcuni punti.
Possiamo dire che è possibile pensare all’idea di uno spazio/vuoto che non ha sostanza in sé, né può essere assolutizzato. Uno spazio/vuoto comune che è apertura, in cui le forme della rappresentazione si costituiscono in una continua creazione e rigenerazione di forme.
È possibile, dunque, uno spazio la cui esistenza accade nella relazione tra soggetti e oggetti che lo determino come luogo trans-eunto e “inconsistente” ma presente e disponibile per possibili configurazioni nella mobilità della trasmissione, composizione e ricomposizione. È realizzabile uno spazio performativo che trova il suo substrato nel vuoto che è privo di determinazione per dare determinazioni.

Prospettiva teorico-pratica
Possiamo ripensare a quanto detto in funzione del nostro festival e come esso si lega alla città attraverso aspetti architettonici e politici con un riferimento a un archetipo dell’architettura contemporanea, il Fun Palace ideato nel 1963 dalla direttrice del teatro inglese Joan Littlewood e progettato da Cedric Price.
Questa struttura nelle intenzioni degli ideatori aveva l’ambizione (mai realizzata) di revisionare il rapporti tra spazio architettonico e possibilità di azione dell’utente stesso. Cioè si proponeva di creare un “edificio” da mettere a disposizione degli utenti per continui nuovi usi ed esperienze spaziali. «Lo stesso programma prevedeva di scegliere se passeggiare, cominciare una rivolta, deliziarsi, informarsi, contemplare o interagire, come altri modi di usare questa tecnicizzata “macchina” per abitare in comune».
Molte delle nostre proposte tengono dentro questo spirito. Si pensi in modo particolare a Serpentone reloaded – alla scoperta della struttura interna, “caveosa”, della “Nave”, una specie di vuoto/chora, un grande scenario, uno spazio/vuoto che immaginavamo, appunto, come uno spazio performante e performativo che avrebbe dovuto dischiudere un quartiere “marginale” alla città ribaltando o destrutturando i concetti di centro/periferia, dentro/fuori, vuoto/pieno, creando così un circuito virtuoso tra cittadini, struttura superiore e interna e la città di Potenza.
Ora, per generalizzare il discorso sulla città, bisognerebbe contrapporre l’idea di vuoto all’urgenza del suo riempimento soprattutto di cemento o imponenti strutture. Bisognerebbe pensare, al contrario, a uno slargamento della città, in modo particolare per generare spazi performativi da una parte (un nuovo modo d’intendere gli spazi pubblici con l’architettura temporanea, per esempio), ma soprattutto lasciare che in vari modi la natura “rioccupi” nella sua autoproduzione la città, tra gli slarghi e i vuoti che a essa si offrono o si devono offrire, riconsiderare il senso e il significato di cosa vuol dire “fare un giardino” per ristabilire un rapporto con la natura e sentirsi una parte di un tutto.

foto © Salvatore Laurenzana

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Note
1. G. Dorfles, Horror Pleni. La (in)civiltà del rumore, Castelvecchio, 2008.
2. Jean-Pierre Vernant, Mito e pensiero presso i Greci: studi di psicologia storica, Einaudi.
3. Il riferimento è ai vari interventi di Derrida sulla chora in Platone, con particolare riferimento a: Jacques Derrida Chora, Jaca Book.
4. A tale proposito si veda: G. Reale, Storia della filosofia Antica, Platone (427-347).
5. Della chora si dice che è “quella natura che accoglie tutti i corpi” (50B6), … accoglie “senza mai prendere in nessun modo e a nessuna condizione alcuna forma che assomigli ad alcuna delle cose che entrano in essa” (50B6-C2). È possibile dire subito, dunque,che la caratteristica fondamentale della chora è quella di non avere alcuna caratteristica. Per sua natura – dice Timeo – la chora“è come un materiale su cui si imprime l’impronta di ogni cosa” (50C). Essa è “mossa” e “divisa in figure diverse” e questo movimento e questa divisione in figure sono determinati dalle “cose” che “entrano” in essa. È proprio in virtù di queste “entrate”, sempre diverse, infatti, che la chora “appare sempre diversa” (50C2-4).
6. Qui si fa riferimento a: Lidia Palumbo, La chora nel Timeo di Platone:una scena per il teatro del mondo, estratto da Vichiana rassegna di studi filologici e storici, 4ª serie anno X 1/2008.
7. Si fa riferimento a: Juoan Lopez Cano, Pratiche e spazi dell’indeterminazione, in Spazi d'artifici. Dialoghi sulla città a cura di Luca Reale, Federica Fava, Juoan Lopez Cano.