Gli spazi aperti delle città attraversano da tempo una fase di spossatezza: nell’esperienza e nel linguaggio di ogni giorno il paesaggio è confuso con l’anestetico ‘green’, le nature urbane sono ridotte a organi respiratori (‘polmoni verdi’), l’abitabilità è affidata alla trascrizione di codici di ordine e decoro, le relazioni a distanze metriche. Quest’orientamento si traduce in luoghi respingenti per presenze e comportamenti atipici, tanto umani quanto di ogni altra forma vivente, ed esprime una propensione verso il controllo come forma di rassicurazione che precede l’esplodere della pandemia da Covid-19. Questa, a sua volta, lo ha intensificato, sterilizzando l’habitat con protocolli di distanziamento e inesauste detersioni di corpi e spazi, sanitarie quanto politiche. Eppure, alcune conseguenze involontarie del confinamento domestico, reso inevitabile dalla gravità dell’urgenza sanitaria, potrebbero essere utili indizi per ripensare le città, al di là della contingenza emergenziale. Così, stabilire rinnovate condizioni di compresenza con gli altri esseri viventi, vegetali e animali −la cui presenza si è rivelata con la speculare assenza degli umani− potrebbe essere possibile e persino desiderabile, anche in considerazione delle più avvertite posizioni del pensiero contemporaneo sul superamento del dualismo tra natura e cultura. O ancora, potrebbe essere altrettanto possibile e desiderabile continuare a esplorare gli ambiti di amnesia urbana, i tanti marginalia fuori dall’ortodossia dei consueti codici di comportamento, della cui ‘diversa qualità’ ci siamo accorti perché esautorati dagli spazi pubblici tradizionali. Ripensare la città alla luce di questa stagione epocale può essere l’occasione per aumentare la capienza degli spazi pubblici, non solo in termini di persone da accogliervi con garanzia di debita distanza, ma di significati e opportunità, che in massima parte deriva dalla loro capacità di assecondare l’imprevedibilità delle nostre relazioni prossemiche.
Annalisa Metta. Architetto e paesaggista, dottore di ricerca in ‘Architettura dei parchi, giardini e assetto del territorio’, è professore associato di architettura del paesaggio presso l’Università Roma Tre. Nel 2016 è vincitrice dell’Italian Fellowship in Architecture/Landscape Architecture presso l’American Academy in Rome, per la quale dal 2017 è advisor nello stesso campo di studi. La sua ricerca riguarda il progetto degli spazi pubblici contemporanei e del Novecento, con particolare attenzione ai temi della performabilità del vivente e dell’architettura dei comportamenti. Ha presentato le sue ricerche in diverse università e centri di ricerca italiani e stranieri, tra cui, negli ultimi anni, University of Southern California (Los Angeles, 2016), École Nationale Supérieure de Paysage de Versailles (Marseille, 2016), University of Pennsylvania (Philadelphia, 2017), Accademia Nazionale di San Luca (Roma, 2018), Parson School of Design (New York, 2018), Syracuse University (Firenze, 2019). Tra i suoi libri: La città selvatica. Paesaggi urbani contemporanei (Libria, 2019), Coltiviamo il nostro giardino (Deriveapprodi, 2019), Verso Sud. Quando Roma sarà andata a Tunisi (Libria, 2018), Anna e Lawrence Halprin. Paesaggi e coreografie del quotidiano (Libria, 2015), Paesaggi d’autore. Il Novecento in 120 progetti (Alinea, 2008).
Nel 2007 è tra i fondatori a Roma dello studio di progettazione Osa architettura e paesaggio. Tra i progetti recenti, premiati e pubblicati: I fiumi non esistono (II premio al concorso per il Parco del Ponte, Genova, 2019), Il parco fluviale della Casina sportiva per Poste Italiane SpA (I premio al concorso a inviti, Roma, 2018).