Questo è l’inizio. Voglio incontrare Gesù nella sua lunghissima assenza. Il volto di Gesù non c’è. Posso guardare i dipinti e le statue. Conosco più di mille pittori del passato che hanno speso metà del loro tempo a riprodurre l’ineffabile, quasi invisibile, smorfia di rammarico che affiorava Sulle sue labbra. E ora? Lui ora non c’è. Quello che più di tutto si fa largo, in me, è il volere. È mettere insieme il volere e il volto di Gesù: io voglio stare di fronte al volto di Gesù, là dove ciò che più mi stupisce è la prima parte della frase: io voglio.
R.C.
Romeo Castellucci si rivolge ancora una volta a un’icona apicale della storia umana: Gesù, a partire dal quale perfino il tempo si misura per la maggior parte del globo. Nella performance “Sul concetto di volto nel figlio di Dio” il ritratto di Gesù parte dalla pittura rinascimentale e in particolare nel momento topico dell’Ecce Homo. In questo preciso istante la tradizione vuole che il Cristo guardi negli occhi lo spettatore in un potente effetto di coinvolgimento drammatico di interrogazione. In questa confusione calcolata di sguardi che si toccano e si incrociano, il ritratto del Figlio di Dio diventa il ritratto dell’uomo, di un uomo, o perfino dello spettatore stesso. E così, nello spettacolo, lo sguardo di Cristo diventa una sorta di luce che illumina una serie di azioni umane, buone, cattive; schifose o innocenti.
“Sul concetto di volto nel figlio di Dio” non parla di Gesù né di adorazione, non ha un carattere sociale di denuncia e non vuole essere facilmente provocatorio. Romeo Castellucci allo stesso tempo prende le distanze dalla mistica e dalla demistificazione, perché in definitiva si tratta del ritratto di un uomo. Un uomo messo a nudo davanti a altri uomini; i quali, a loro volta, sono messi a nudo da quell’uomo.
“Sul concetto di volto nel Figlio di Dio”, declinato in performance diverse, in opere autonome pur nella tensione a un medesimo orizzonte, è stato il preludio all’opera ‘Il Velo Nero del Pastore’.
Il titolo della performance rimanda all’icona del volto di Cristo, tanto presente nella memoria collettiva di milioni di uomini, da divenire quasi invisibile, perché profondamente implicito. Presente al di là della coscienza e della scienza; al di là del sentimento e della storia; essenzialmente e radicalmente presente, a prescindere dalla propria volontà. Un nome, in qualche modo, subìto dal solco di un’esperienza millenaria di riferimenti.
“Sul concetto di volto nel Figlio di Dio” affronta nodi ricorrenti nel teatro della Socìetas Raffaello Sanzio: la religione concepita nel suo humus di simboli e rituali, radice comune al teatro stesso, senza alcuna accezione mistica o teologica.