L’essere è singolare e plurale, al tempo stesso, indistintamente e distintamente. È singolarmente plurale e pluralmente singolare. (Jean Luc Nancy)
Il verbo si fa carne

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Giuseppe Biscaglia
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Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto morire in quel modo, disse: "Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!"
— Matteo 27:54
Piersandra Di Matteo, critico teatrale e dramaturg, è stata ospite, nelle scorse settimane, del festival. Ha potuto rivedere, al teatro Francesco Stabile di Potenza, Sul concetto di volto nel figlio di Dio e ha tenuto, all’indomani, una bellissima conferenza dal titolo Il verbo si fa carne. Sul teatro di Romeo Castellucci. Ed è su alcuni dei temi toccati dalla conferenza che vorrei soffermarmi, anche in una sorta di dialogo a distanza con alcuni degli interventi contenuti nel volume collettaneo Toccare il reale. L’arte di Romeo Castellucci curato dalla stessa Di Matteo per la casa editrice Cronopio.
Partirei – come ha fatto la stessa Di Matteo – da un grande testo di Jean-Luc Nancy: Essere singolare plurale.
Scrive Nancy:
L’essere è singolare e plurale, al tempo stesso, indistintamente e distintamente. È singolarmente plurale e pluralmente singolare. (…) Essere singolare plurale vuol dire: l’essenza dell’essere è, ed è soltanto, una co-essenza; ma una co-essenza, o l’essere-con (l’essere-in-tanti-con) designa a sua volta l’essenza del co-, o ancor meglio il co- (il cum) stesso in posizione o in guisa di essenza.
Il “con” dell’essere-con fa l’essere, e non viene aggiunto successivamente ad esso. Dunque, singolare plurale è capire che “la singolarità di ciascuno è indissociabile dal suo essere-con-tanti”. Del resto – aggiunge Nancy – singuli in latino si dice solo al plurale, poiché designa l’uno dell’uno a uno.
Il singolare è sin da subito ogni uno, e dunque anche ogni con e tra tutti gli altri.
Ma non solo. L’insieme dei singolari è la singolarità “stessa”, che assembla i singolari solo nella misura in cui li spazia, che li “lega” solo nella misura in cui non li unifica.
Il testo di Nancy, potente dal punto di vista teoretico e filosofico, ci introduce all’essenza stessa del teatro, alla sua potenzialità tesa a produrre un “incontro… attraverso una dinamica che divide il pubblico da se stesso, raccolto in una comunità istantanea di solitudini in relazione”. Essere-in-teatro è l’essere-in una comunità senza avere una comunità. È l’essere esposti continuamente – tra gli altri – con il proprio corpo.
E il teatro di Castellucci è un "teatro del corpo", un teatro che nel mettere in scena il corpo ne mostra anche la sua irrappresentabilità, la sua potenza plastica nella rivelazione dell’altro dal corpo.
In questa direzione, l’intervento del teologo Marcello Neri Il teatro del corpo. L’enigma liberato è ricco di spunti e di forti suggestioni, a partire dal giudizio critico che Neri esprime sugli “interventi scomposti e inadeguati del magistero episcopale europeo – con qualche rara eccezione – e della stampa vaticana, in molti casi senza aver assistito alla performance Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, mostrando così tutta l’incapacità e l’inadeguatezza ad abitare il dibattito pubblico contemporaneo”.
L’incontro con il teatro di Castellucci è un incontro con la “dimensione corporea, nella sua nuda fisicità, del vivere e del pensare”. “È il corpo, e non il puro pensiero, che fa la dignità del pensiero”. E l’ipotesi di lavoro di Neri risulta subito affascinante:
Il come del corpo nel teatro di Castellucci mostra omologie, intriganti e niente affatto marginali, al come del corpo nel cristianesimo e nella sua notitia Dei.
Che cosa questo significa?
Innanzitutto, il come richiama una questione di stile e non di contenuto (anche se Castellucci si applica con una qualità estetica e spirituale inedita sulla scena artistica contemporanea per quanto riguarda il materiale della tradizione religiosa cristiana!). In secondo luogo, “il passaggio estetico è originariamente connaturale al passaggio al corpo dell’idea cristiana di Dio”, ma questo passaggio scava profondamente nella tradizione ebraica della non rappresentabilità di Dio, del divieto a farsi un’immagine di lui, fino a mostrare che “nel gesto dell’incarnazione del logos figliale di Dio”, nella “materialità del corpo del Figlio” si realizza “l’impossibilità della rappresentazione”, “l’ineffabilità cristiana di Dio”.
C’è un passaggio nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel, in particolare nella figura della “coscienza infelice”, nel quale si evidenzia quanto abbiamo finora detto.
Per questa coscienza si produce dunque l’unità – l’unità dell’Universale e del Singolare, della coscienza intrasmutabile e di quella trasmutabile – e questa unità è l’incarnazione di Dio, la figura storica del Cristo.
Ma è in questo rapporto col Cristo che la coscienza si scoprirà come “coscienza infelice”.
Sì, è vero, l’intrasmutabile si è dato storicamente in forma sensibile, in questo sensibile che è la figura di Cristo, ma nel darsi “l’intrasmutabile dilegua necessariamente, e in tal forma diviene altrettanto inaccessibile alla coscienza quanto l’al di là trascendente”. L’intrasmutabile, ora, sta di contro alla coscienza come “un impenetrabile Uno sensibile con tutta la crudezza di una realtà effettuale”. La speranza di potersi unificare con l’intrasmutabile deve restare speranza, deve cioè restare senza compimento e senza presenzialità – un dileguarsi nel tempo e nello spazio, “e che sia stato lungi e senz’altro lungi rimanga”.
Cristo si è manifestato una volta nel mondo, ma allora si è anche dileguato nel tempo, e l’autocoscienza ha saputo che “Dio stesso è morto”.
La storicità irriducibile del farsi uomo di Dio costituisce ciò che lo spirito, l’autocoscienza deve superare “perché tale presenza s’innalzi al di là del momento storico, sia aufgehoben”.
Quel corpo di carne, dunque, si oppone – in nome di Dio – a qualsiasi logica della rappresentazione, e il teatro di Castellucci in quanto teatro dei corpi “mette in scena il corpo come ciò che sfugge ad ogni possibile rappresentazione”, all’originaria enigmaticità del corporeo. Ed è proprio nel “campo del linguaggio” e del suo rapporto con il corpo che Castellucci lavora a decostruire profondamente la tradizione occidentale – una tradizione che ci ha consegnato la potenza del logos nel “suo distacco” e nella “sua distinzione dalla materia sensibile del corpo”:
In questo mito del linguaggio, come articolazione concettuale del senso, la voce non sarebbe che un supporto, sostanzialmente superfluo, di un pensiero totalmente disarticolato dagli spessori corporei dell’esistere umano.
Il contributo del “teatro del corpo” di Castellucci edifica, al contrario, un logos (parola, linguaggio, pensiero) che restituisce al linguaggio la sua corporeità, eliminando la centralità del significante su cui si è costruita la “macchina linguistica” della tradizione metafisica occidentale.
Il corpo, ora, “come generatore del linguaggio, dove solo la sua scena è in grado di tessere fisicamente il nesso fra la semiosi della carne e l’enunciazione di un logos all’altezza dell’originario mancante, assente, non raggiungibile da alcuna significazione”. Dunque, un nuovo inaugurale logos, un logos-corpo che dialoga, in maniera “discreta”, con “l’intrigo teologico”, con “l’evento cristiano di Dio”. Ed è su questi temi che l’intervento di Neri si innalza a livelli di assoluta bellezza.
Che cos’è, infatti, “la parola definitiva di Dio” se non “il grido inarticolato, svuotato da ogni contenuto, del corpo crocifisso di Gesù nell’assenza più radicale del significante intorno al quale quell’uomo aveva edificato tutta la sua esistenza a rappresentanza dell’Abba-Dio”.
La pagina evangelica di Marco è testimonianza di questo:
Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: ‘Eloì, Eloì, lemà sabactàni?’, che significa: ‘Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?’. Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: ‘Ecco, chiama Elia!’. Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere dicendo: ‘Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere’. Ma Gesù, dando un forte grido, morì”.
Il corpo di Gesù, qui, è corpo-gesto che attesta il suo essere “ulteriore a ogni forma del discorso”, generando così uno spazio/tempo reale, concreto, “all’altezza del vuoto” determinatosi “dall’assenza del significante”. “Ed è proprio qui che la restituzione al corpo del linguaggio cercata da Castellucci con il suo teatro e la notitia Dei che è il corpo del Figlio si incontrano e si intrecciano stilisticamente tra loro”. Dunque, l’accadimento di un corpo che muore al di fuori di “ogni spazio sacro e di qualsiasi recinto della religione istituita”, si offre al libero riconoscimento di “chiunque sappia vedere in quella lacerazione vocale del logos la presentazione ultima del Figlio a testimonianza di Dio”:
Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto morire in quel modo, disse: ‘Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!’
È forse lo stesso squarcio che attraversa, nella scena finale di “Sul concetto di volto nel figlio di Dio”, l’immagine del volto di Cristo ritratto da Antonello da Messina?