L’inverno delle Supplici nel quartiere Bucaletto, in un frangente delicato e determinante per una storia, in parte non scrivibile, della città.
Si danza dove non si vive, sulle macerie della ricostruzione

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Donato Faruolo
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A quasi quarant’anni, il quartiere è su un confine pericoloso: ricostruisce alcuni suoi punti nodali senza rimettere in discussione la propria struttura precaria, funzionalista, disgregante nata nell’emergenza.
23 novembre 2019, Bucaletto, Potenza.
Siamo nel quartiere/baraccopoli nato nell’urgenza e sopravvissuto fino a ora – esattamente al 39esimo anniversario del terremoto dell’Irpinia e della Basilicata – per un impasto di contingenze generate dal reciproco divorarsi tra popolo e governanti. La vittima più illustre del terremoto del 1980 (o meglio, della ricostruzione) si può dire fu la dignità individuale e il senso del valore della dimensione pubblica, tra vicinati che si sfaldavano definitivamente, case di famiglia che da patrimonio – anche simbolicamente – immobile diventavano merce speculativa, e inattuati paradigmi tecnicisti dell’abitare che hanno distrutto i paesi nei loro presupposti culturali senza rendere in cambio la promessa efficacia sociale, ma anzi diseducando e abbassando le aspettative di qualità della vita presso gli abitanti.
Le Supplici, Le stagioni invisibili, Ciclo coreografico infinito / Inverno, a Potenza per Città delle 100 scale Festival, sceglie “per caso” questo posto come ambiente della performance, proprio in questo giorno. Confermando ancora una volta quella curiosa confluenza tra spirito dei luoghi e senso della drammaturgia coreografica che entrando in risonanza si rivelano reciprocamente. Come una macchina da cucire in un’opera di Kounellis non è l’esemplare qualsiasi di una serie ma il testimone di una storia individuale e universale che diventa la vera materia “tonale” che costituisce il senso del lavoro, così nel Ciclo coreografico infinito non esistono location e fondali neutri, ma i danzatori attivano il paesaggio e la sua storia umana disperdendovicisi o configurandovicisi di riflesso. In un frangente, per quel paesaggio, tra i più controversi.
A quasi quarant’anni, il quartiere è su un confine pericoloso: ricostruisce alcuni suoi punti nodali senza rimettere in discussione la propria struttura precaria, funzionalista, disgregante nata nell’emergenza (ecco la nuova piazza, la scuola, la chiesa), tira su alcuni edifici popolari per ricollocare gli abitanti delle vecchie baracche e casupole originariamente destinate ai terremotati, e semplicemente abrade le tracce più grossolane di una modalità abitativa e di un brano di città che nel frattempo è diventato esso stesso storia, testimonianza emblematica, struttura. Una macchina del tempo inceppata sulla cattiva consapevolezza: né si abbandona il luogo per ridarlo alla natura (giacché centinaia di persone lo hanno significativamente abitato lungo questi quarant’anni) né si fanno i conti con i fatti accaduti, nel frattempo strutturatisi in memoria, che tengono le persone ancora lì, al di là dell’autostrada, in una conca nascosta tra le serre montuose, talvolta esposte ai fumi della ferriera.
E mentre anche in centro storico si continua ad abbattere le vecchie casupole di pietra come se nulla avessimo avuto da imparare per 80 anni di incuria e incultura urbanistica, le casette di Bucaletto ad un passo dall’essere spazzate via non trovano sostegno nemmeno presso i più illuminati attivisti del dibattito cittadino. L’unica soluzione escogitata per far fronte alla questione è una “rimozione”, la cui componente in materia sembra però la meno pressante se confrontata alla componente in coscienza.
foto © Salvatore Laurenzana