La questione edipica al giorno d'oggi

Lo spettacolo di Babilonia Teatri ripercorre la dinamica del rapporto padre-figlio in un’eterna e rinnovata conflittualità.

Written by

Francesco Scaringi

Published on

09 October 2019

Frammenti di un discorso che si ricompongono in plurime costellazioni di senso, un teatro che spiazza, inafferrabile a generi, tendenze o scuole, che può piacere o non piacere, ma che sicuramente non lascia indifferenti.

La questione del “padre” apre discussioni che vanno dall’esistenza di ognuno alla globalità dei grandi quesiti sociologici, filosofici e teologici. Babilonia Teatri ha invece pensato di tirarne fuori uno “spettacolo”, Padre nostro – nel programma della undicesima edizione del Città delle 100 Scale festival – in cui, come da abitudine, la compagnia non arretra di fronte ai drammi e alle questioni fondamentali, spesso occultate, che interessano la nostra società: dal tema della morte a quello della filiazione in provetta e al coma, fino ad arrivare, appunto, alla figura del “padre”.
La partenza è dal personale. Ma, come si diceva una volta, il personale si fa politico, nel senso che può essere messo in scena nella sua valenza universale e con grande spirito di libertà solo in un teatro in cui si renda ancora possibile un confronto diretto. A invocare il nome del padre sono i figli, i quali ne sono giudici, carnefici e redentori, e allo stesso tempo sono il risultato di una storia che ha conseguenze nel presente.

Tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento, in pieno boom – prima americano e poi europeo –, il mondo giovanile emerge dal sottosuolo della società tradizionale. Con il loro ribellismo i giovani, da una parte, si definiscono entro quelle che i sociologi hanno chiamato sub-culture giovanili, un complesso di comportamenti, mode e parlate gergali che si spinge sino ai processi di emarginazione e a quei comportamenti individuati come devianti. Musica, cinema e letteratura sono stati veicolo della loro espressione. Dall’altra sono considerati sotto l’aspetto di un desiderio da confinare e realizzare nella sfera del mercato, così da renderli parte integrante della società dei consumi. Il Sessantotto per molti aspetti è il momento di massima reazione giovanile: strettamente legata alla dimensione del potere, la figura del padre (o di tutto l’apparato edipico) viene messa in discussione nei suoi aspetti di identificazione, oppressione e condizionamento in nome della libertà e degli slanci utopici, azione propedeutica alla ricerca di diverse dimensioni esistenziali e sociali. Se rispetto alle diffuse utopie non sono mancati ripensamenti e momenti di “riflusso”, sicuramente da questo momento in poi – grazie anche ai grandi movimenti femministi – l’articolazione dei rapporti di genere e il rapporto tra genitori e figli ha cominciato a trovare una diversa formulazione nei modelli e nei ruoli familiari.

padre nostro sparo slaurenzana

Oggi sembra ci sia una nuova frattura, o meglio, una diversa tensione, tra figli e genitori, con particolare riferimento alla riconfigurazione della figura paterna. Di fronte all’incertezza del futuro, che schiaccia su un presentismo eterno, cancellati i tradizionali riti di passaggio della crescita e della maturazione, non sembra possibile il reciproco riconoscimento nell’autonoma realizzazione delle proprie aspettative. L’angoscia del futuro è dissimulata nel prolungamento dell’infanzia e nella sempre più frequente identificazione degli adulti con i propri figli, oltre che in conflitti sottaciuti o ignorati che a tratti emergono in cronache di ordinaria follia o in proteste sociali ancora magmatiche e prive di orizzonti definiti.
Certo i padri si appellano a un ruolo formalmente assegnato. Ma di fatto sono smarriti di fronte alla realtà e al mondo dei figli verso cui il gioco dei sì e dei no, dell’essere o dell’apparire, del presente e del futuro diventa più ambiguo e sfumato, in particolar modo al cospetto della “rete” in cui i giovani vivono in dimensioni inaccessibili riferite ad altri “mondi”. I figli d’altronde, spesso ingabbiati nel giovanilismo perenne, guardano ai padri e pongono interrogativi sulle loro incertezza, avvertendo già dentro di sé che le risposte che si aspettano non ci saranno. Così lo spettacolo Padre nostro di Babilonia Teatri si configura come una vera “autopsia” del padre esibita in scena. Un’autopsia in cui due figli stendono il proprio padre (tra l’altro, il proprio vero padre genetico) su un tavolo e ne analizzano gli organi in cui sono segnati o depositati i segni e gli escrementi dell’esistenza, del rapporto con i figli, delle ritualità vuote della famiglia. Così in scena i due ragazzi sottopongono il padre a un fitto, disperato, crudele e tenero interrogatorio. A stento ne riceveranno risposte, senza grandi chance se non quella della conquista di un rinnovato affetto comune.

Come ha affermato il regista Enrico Castellani in un incontro con i ragazzi delle scuole medie superiori prima dell’apertura del sipario, lo spettacolo, senza alcuna pretesa di seducente emotività, opera la sintesi di aspetti della realtà procedendo per accostamenti di situazioni reali, di riflessioni, di confessioni o proclami, portando il tutto all’estremo e talvolta fino al paradosso per fare in modo che le domande che vengono poste possano suscitare una reazione: l’apertura di una possibile discussione sulla realtà – o su spezzoni di essa – in cui riconoscersi, ognuno secondo le proprie prospettive. I protagonisti, infatti, non dialogano tra loro ma, come in un talent show o a un concerto rap, si esibiscono ed esibiscono interrogazioni, dolori, richieste e rabbie, palesando un conflitto fino a quel momento vissuto sotterraneamente. Dopo una breve resistenza iniziale, il padre, da parte propria, non potrà che sottoporsi alla propria autopsia, magari cercando di recuperare un rapporto espresso se non nelle parole almeno nelle gestualità dell’affetto: così, dopo l’autopsia, seduto per terra, esausto, nudo, accoglie i figli a giacere ai propri fianchi.

Padre nostro è una disperata parodia del “Padre Nostro” che si articola nel gioco di trasposizione dall’infinito al finito, dal divino al quotidiano: entrambi sono segnati dal dolore e dalla richiesta di rimettere i nostri debiti. Così reciterà infatti il padre nudo seduto per terra sulla scena, evocando debiti così gravosi sul capo di ciascuno da offuscare qualsiasi orizzonte comune di felicità. Proprio grazie alla forza e alla “fredda” carica energetica dei ragazzi in scena che invocano “ascolto”, qualcosa potrà accadere; l’unica alternativa è che la scena resti nel buio.

padre nostro figli slaurenzana

Al termine dello spettacolo ho dovuto “consolare”, tra l’ironico e il vero, un amico: anch’egli padre, era restato interdetto da quanto visto sulla scena. Ho citato i versi della canzone di Tom Waits Anywhere I Lay My Haed, leitmotiv di tutto lo spettacolo, che recitano: «Anywhere I lay my head, boys I will call my home», ovunque io appoggi la mia testa, ragazzi, la chiamerò casa.

Babilonia Teatri si conferma, con il proprio particolare modo di concepire la scena, uno dei gruppi più attenti agli elementi esistenziali e sociali che marcano il nostro tempo. Privi della pretesa o del cipiglio ideologico di chi sa, dimostrano la consapevolezza drammaturgica necessaria a formulare le cose nella loro essenza crudele o meravigliosa, senza alcuna forma retorica. Frammenti di un discorso che si ricompongono in plurime costellazioni di senso, un teatro che spiazza, inafferrabile a generi, tendenze o scuole, che può piacere o non piacere, ma che sicuramente non lascia indifferenti.


foto © Salvatore Laurenzana

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